Anticorruzione, «non solo scartoffie»
«La crisi predispone un terreno favorevole a fenomeni di mala gestione e di corruzione» e questi fattori, a loro volta, mettono a rischio la possibilità di «un ritorno su livelli di crescita soddisfacenti». L’allarme è stato lanciato dal presidente della Corte dei Conti, Raffaele Squitieri, nel discorso d’apertura dell’anno giudiziario 2015 della magistratura contabile.
Il tema coinvolge tutti gli attori socio economici. Dallo Stato alle società private. Gli scandali, anche recenti, che hanno raccontato il malaffare dilagante, esigono una risposta collettiva. E per quanto riguarda le imprese, dice a Mag by legalcommunity.it Alessandro Musella (nella foto), socio dello studio Bonelli Erede Pappalardo e leader del focus team anticorruzione istituito per assistere le aziende su questo fronte, «bisogna superare la falsa credenza che le politiche anticorruzione di un’azienda si possano ridurre alla predisposizione di un modulo». Il riferimento è al cosiddetto modello 231. «Non è una questione di scartoffie da compilare», sottolinea l’avvocato che guida un gruppo di cinque professionisti che ha già all’attivo una ventina di casi, «la legge 231 dice che i modelli devono essere anche efficacemente attuati e la maggior parte delle aziende cade proprio su questo». Il problema spesso sono i costi di implementazione di un programma.
Ma per Musella, la questione è secondaria: «In realtà il tema è culturale».
Anticorruzione, cosa possono fare le imprese? Quali strumenti ci sono?
Le imprese possono (e devono) fare molto per la prevenzione della corruzione. In particolare possono adottare e attuare dei “programmi di compliance” anticorruzione. L’adozione e l’effettiva attuazione di questi programmi è tra l’altro un dovere di amministratori e sindaci della società, poiché la “compliance anticorruzione” fa parte degli “assetti organizzativi” che gli amministratori delegati delle società devono “curare” e che gli altri amministratori (“non esecutivi”) e i sindaci devono, rispettivamente, “valutare” e “controllare”. Il problema è che in Italia solo pochissime società hanno un serio “programma di compliance” anticorruzione.
Come mai?
Alcune società fanno questa scelta deliberatamente, in base a un bilanciamento tra il rischio (remoto) di essere scoperte e condannate e i benefici (certi e immediati) della corruzione.
È sufficiente avere un modello 231? Molti ritengono di sì…
Molte società ritengono, sbagliando, che per prevenire condotte corruttive da parte di loro esponenti sia sufficiente avere adottato il cosiddetto “Modello 231”. Ma per le società che operano in settori a rischio di corruzione (come gli appaltati di opere pubbliche) non basta, serve un “programma di compliance” anticorruzione, secondo quanto previsto dalle guidance e best practices internazionali.
Sembra una cosa complicata…
Su questo punto essenziale della prevenzione aziendale, abbiamo recentemente creato – nell’ambito del Workshop Ambrosetti dell’“Osservatorio sull’Eccellenza dei Sistemi di Governo in Italia” – la “Guida ai programmi di Compliance anti-corruzione per le imprese italiane”. La Guida illustra i 10 criteri fondamentali per la costruzione e attuazione di un idoneo, efficace ed effettivo programma anticorruzione in azienda.
E quindi?
Se un’azienda li seguisse e li mettesse in pratica potrebbe persino farselo da sé il programma.
Hervé Falciani, quello della lista Hsbc e dei cosiddetti swiss leaks, ha detto che «in Italia tutto è organizzato per criminalizzare le informazioni». Impossibile, quindi, introdurre il whistleblowing?
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