Addio alle partnership: il rebus del limite d’età

di nicola di molfetta

Il tema è delicato. E il rischio di dare i numeri è molto più che un facile gioco di parole. Ma se parliamo di “associazioni professionali e limite d’età per la partecipazione alla partnership”, tocchiamo uno dei temi più delicati che chi gestisce uno studio legale si trova a dover affrontare quando il proprio studio entra nell’età adulta delle organizzazioni complesse.
I livelli di difficoltà sono parecchi e la soluzione di un problema, di solito, comporta la necessità di affrontarne un altro successivo e conseguente che dà il via a un domino di situazioni che richiedono abilità da giocoliere esperto per evitare che la struttura si sfaldi come una pila di fogli al vento.

In Italia, mai come in questi anni, la questione è stata approcciata con serietà dai grandi studi legali organizzati. Curiosamente, però, mentre da noi il tema è all’ordine del giorno nel senso che in tanti sono alla ricerca del giusto limite (65? 67? 70?) a cui fissare un obbligo più o meno derogabile di uscita dal patto associativo su cui si regge lo studio, all’estero, dove questa prassi fu introdotta negli anni Ottanta, si discute di come rivedere questi limiti che ormai non si sposano più bene con l’allungamento dell’aspettativa di vita e la retorica della discriminazione anagrafica.

La dicotomia tra Italia e mondo anglosassone ci porta, come sempre, a vivere una dimensione storico temporale ambivalente. Quello che è vero per noi oggi, qui, all’altezza del 41esimo parallelo Nord, fu vero nel Regno Unito e negli Usa, una trentina d’anni fa. E, probabilmente, ciò che oggi è in cima alle agende dei managing partner della City, lo sarà anche per i soci gestori di casa nostra tra qualche tempo. La necessità di fissare dei limiti di età per la partecipazione alla partnership di una law firm fu essenzialmente la diretta conseguenza di un processo senza precedenti di crescita dimensionale di quelle strutture che, tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso vissero uno scatto dimensionale senza precedenti. Esattamente quello che sta accadendo in casa nostra oggi. E all’epoca (all’estero), come adesso (da noi), la necessità di creare spazi all’interno delle varie organizzazioni per favorire le carriere dei giovani talenti arruolati sul campo nel bel mezzo di una corsa senza soste per la competitività sul mercato, ha implicato la necessità di fissare delle regole di governo che favoriscano una dinamica di virtuosa fluidificazione generazionale.

Tuttavia, proprio mentre qui da noi i managing partner delle strutture indipendenti cercano di quadrare il cerchio del giusto mezzo anagrafico per gestire i flussi in entrata e in uscita dagli elenchi di nomi che un tempo sarebbero finiti in carta intestata, oltreconfine ci si arrabatta per studiare soluzioni alternative agli obblighi, ai limiti, e ai divieti soprattutto perché la prassi che ha funzionato decentemente per qualche decennio dopo gli anni di boom del settore comincia a diventare finanziariamente insostenibile. Un “vecchio” partner di 60 anni poteva anche accettare di buon grado l’idea di appendere i codici al chiodo e dedicarsi a tempo pieno al golf o alle sue rose, ma a rendere più dolce la pillola c’era una rendita finanziaria che gli veniva concessa in cambio del beau geste che oggi si sta trasformando in un lusso incompatibile con le esigenze di cassa delle varie organizzazioni.

Chi, come noi italiani, gioca questo gioco nello iato temporale che separa il presente dalle dinamiche future del mercato, ha il vantaggio di poter apprendere la lezione beneficiando di un lauto sconto sugli effetti collaterali che i precursori sono soliti pagare. E al momento, la conclusione più sensata a cui sembra utile arrivare è che il nodo che intrica partecipazione alla partnership, gestione dell’avviamento e apertura ai nuovi talenti, possa essere sciolto semplicemente facendo ricorso a una sana e mediterranea dose di relativismo manageriale.

Non tutti i partner sono uguali. E non ha senso applicare a tutti, indistintamente, date di scadenza sulla opportunità della propria permanenza in associazione. Storia, relazioni, rappresentatività, talento sono solo alcuni dei fattori che devono essere messi sulla bilancia e far sì che, per alcuni, certi limiti possano essere derogabili, per altri, debbano diventare la via d’accesso a ruoli alternativi e di diversa utilità, mentre per i soci ordinari possano rivelarsi uno step obbligato magari preparato per tempo con una sapiente organizzazione dei budget di buona uscita. Insomma, è vero che il limite di età per i soci è un rebus. Ma è altrettanto vero che la soluzione all’enigma non è una soltanto e l’applicazione di criteri differenti a casi differenti non è necessariamente sintomo di incoerenza, bensì può derivare da un consapevole esercizio di capacità gestionale.

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nicola.dimolfetta@lcpublishinggroup.it

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