Avvocati e comunicazione: Dla Piper fissa le policy per l’uso dei social (AUDIO)

Non ci interessa fare il record di click o di like. Ma ci interessa usare bene questi strumenti.

Esserci o non esserci? Questo non è il problema. Studi legali e social network non possono essere estranei gli uni agli altri. È questo il punto da cui è partita la riflessione che, nelle scorse settimane, ha portato la sede italiana di Dla Piper, una delle principali insegne internazionali della business law presenti nella Penisola, a codificare delle politiche comportamentali per tutti coloro i quali lavorano al suo interno. Una sorta di vademecum comportamentale grazie al quale, d’ora in poi, nessun avvocato o dipendente della law firm anglo-americana rischierà di utilizzare il proprio profilo social in maniera inopportuna o addirittura dannosa per l’organizzazione.
Questa iniziativa nasce dalla consapevolezza che ciascun professionista così come ciascun impiegato dello studio ne è, in certo qual modo, un rappresentante sulla piazza social mediatica. I tecnici della comunicazione parlano di brand ambassador.
E proprio qui sta la novità dell’iniziativa presa da Dla Piper e sollecitata in particolare da Giampiero Falasca (nella foto), socio a capo della practice di diritto del lavoro dello studio, ma anche partner di riferimento per il marketing e il business development dello studio. Tutti (o quasi) gli studi legali hanno delle policy per la gestione della comunicazione social a livello corporate. I profili dello studio sono alimentati ovunque secondo principi e strategie condivise con gli organi di governo di queste organizzazioni. Ma l’iniziativa di Dla Piper ha posto l’accento sull’uso che ciascun componente della propria associazione fa dei propri profili, fissando dei principi utili a raggiungere un obiettivo molto semplice: usare bene questi strumenti.

ASCOLTA: 

Come avete deciso di elaborare queste policy sull’uso dei social?
Innanzitutto abbiamo ascoltato le opinioni dei colleghi, confrontandoci con loro e cercando di capire la loro percezione del tema. E poi abbiamo fatto un benchmark sulle policy esistenti, partendo da un indubbio vantaggio: noi stessi spesso prepariamo questi prodotti per i nostri clienti, e quindi eravamo già pronti sul tema.

L’estemporaneità è un fattore di rischio?
La comunicazione social che ciascuno fa è spesso destrutturata. Il che non è un male in sé. Tuttavia può creare dei problemi. Quindi va gestita. Soprattutto se può coinvolgere direttamente o indirettamente lo studio.

Tutti i social sono uguali da questo punto di vista?
Noi riteniamo di fare una distinzione tra quelli che consideriamo social “professionali” e social “privati”. Alla prima categoria appartengono Linkedin e Twitter. Alla seconda, invece, Facebook e Instagram. Le policy che abbiamo fissato riguardano l’uso dei primi due.

E cosa prevedono? Ci faccia qualche esempio?
La prima regola è la sobrietà. È importante che i post siano improntati a questo principio. Poi è importante che i nostri post siano dedicati a questioni o tematiche che conosciamo e di cui siamo tecnicamente competenti. Infine, salvo i casi in cui ci sia un motivo specifico che giustifica una scelta diversa. Non parliamo di vicende che riguardano specifiche imprese soprattutto nostre clienti. Per una questione di deontologia e di riservatezza.

E sul piano dell’etichetta?
Per esempio raccomandiamo di non taggare colleghi senza averli avvertiti e senza aver avuto il loro consenso.  Non ci interessa fare il record di click o di like. Ma ci interessa usare bene questi strumenti.

Ma cosa significa “bene” in quest’ottica?
Significa essere consapevoli dell’uso del mezzo, non per usarlo di più, ma meglio.

Nella comunità legale molti si chiedono ancora perché un avvocato debba stare sui social… Cosa risponde?
Perché siamo nel 2020, perché la comunicazione fa…

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nicola.dimolfetta@lcpublishinggroup.it

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