Commercialisti, aggregarsi conviene ma in pochi lo fanno

L’aggregazione resta un processo mal visto dai commercialisti. Solo un commercialista su 5 è associato. Come avviene per la maggior parte delle professioni liberali, infatti, anche i commercialisti esprimono una voglia di autonomia che li porta a conservare una forte impronta individuale.

Tuttavia, l’evoluzione economica e sociale degli ultimi anni, unita alla sempre più forte spinta alle specializzazioni e la crescente complessità dei sistemi socio-economici pubblici e privati, rendono via via più inadeguato il modello “atomistico” della professione.

Parte da queste considerazioni il documento “Il processo di aggregazione e la digitalizzazione negli studi professionali”, con il quale Consiglio e Fondazione nazionali della categoria propongono alcuni strumenti e spunti di riflessione. L’obiettivo è di indicare nuovi modelli di aggregazione, anche “leggeri”, resi possibili dall’innovazione tecnologica e dalla digitalizzazione dell’attività professionale.

Come spiega nell’introduzione al documento il consigliere nazionale delegato all’innovazione e organizzazione degli studi professionali, Maurizio Grosso “I motivi per cui i modelli aggregativi esistenti, da quello tradizionale dell’associazione professionale a quello più recente della società tra professionisti sono poco diffusi, possono essere individuati, da un lato, nei limiti culturali tipici del modello atomistico, e, dall’altro, nei limiti statutari e normativi dei modelli esistenti. Infatti, nonostante le migliori performance economiche dello studio associato e della Stp, solo un commercialista su 5 è associato”.

Eppure, secondo i dati forniti dalla Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza dei Dottori Commercialisti, aumentare le dimensioni ed aggregarsi conviene. Chi esercita la professione in forma associata o societaria (totale o parziale) ha un reddito medio pari a 125 mila euro ( con un volume di affari 245 mila euro) contro i 49 mila euro di chi esercita esclusivamente in forma individuale (con un volume di affari 80 mila euro).

Nel documento, inoltre, viene sottolineata la rilevanza dei fenomeni di crisi che interessano la professione di commercialista. Fra questi,  il documento individua “la spinta alla concorrenza e la crescente complessità normativa che coinvolgono il mondo delle Pmi italiane, che si riflettono inevitabilmente sull’aumento di costi e responsabilità professionale, con maggiori oneri per gli studi soprattutto quelli di minori dimensioni”.

A questi fenomeni si aggiunge la crescente rapidità con cui le competenze dei professionisti divengono obsolescenti. Ciò rende necessario il ricorso alla formazione continua o a nuova formazione “specialistica”, con  il costo di esercizio della professione che, in condizioni estremamente parcellizzate, è spesso fonte di crisi.

Altro elemento di sofferenza è la digitalizzazione. Questa rappresenta  sì un costo nell’immediato per professionisti e imprese, ma, come spiega Grosso, è anche “un’opportunità per modernizzare il sistema Italia e favorire di riflesso un profondo rinnovamento della nostra professione”. Il processo di digitalizzazione, infatti, migliorando i processi gestionali degli studi professionali e ampliando gli spazi sul mercato, può concretamente favorire l’evoluzione della professione stessa.

Ed è nel contesto appena descritto che, secondo Grosso, l’aggregazione, anche in forme nuove e “leggere”, diventa strategica. Anche in questo caso la digitalizzazione può diventare un alleato fondamentale. Nel documento infatti, viene ampliato il significato di “aggregazione”. Il termine non fa riferimento solo a grandi strutture, ma anche a singoli professionisti che, da strutture separate, dialogano tra loro. E lo fanno servendosi di strumenti quali software, piattaforme cloud, piattaforme web e più, in generale, tramite la condivisione di competenze, dati e informazioni.

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