Franzo Grande Stevens, novant’anni di un business lawyer

Auguri avvocato. Franzo Grande Stevens compie novanta anni. Ed è facile immaginare che questa giornata speciale per lui comincerà, come tante altre, nello studio di via del Carmine a Torino. Questo è stato il teatro in cui si è svolta la sua storia professionale. Unica. Irripetibile. Una storia che noi di legalcommunity.it abbiamo raccontato un anno fa dedicando all’Avvocato dell’Avvocato la storia di copertina del numero 86 di MAG.

Una lettura che pensiamo sia utile riproporre. Non solo per celebrare l’anniversario della nascita di uno dei più grandi business lawyer della storia italiana, ma anche perché racconta lo spirito che ha animato una generazione straordinaria di grandi avvocati. Giuristi, uomini di lettere, appassionati di storia e allo stesso tempo avvocati, capaci di comprendere alla perfezione le urgenze della vita dei loro clienti facendosene carico e diventando per loro partner insostituibili.

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di nicola di molfetta

 

Più di sessant’anni di professione alle spalle. E una passione radicale per il diritto che lo ha portato a essere avvocato a 28 anni, cassazionista a 30, leader di una delle più note boutique legali del Paese nonché presidente della Cassa Forense nel 1979 e del Consiglio nazionale forense, dal 1984 al 1991.

Parliamo di Franzo Grande Stevens, ovviamente. L’avvocato dell’Avvocato. Ma soprattutto uno dei pionieri della business law italiana e grande consigliere del potere economico nazionale. MAG lo ha incontrato nel suo studio, a Torino.

Novanta anni. Grande Stevens frequenta assiduamente lo studio in via del Carmine. «Tutti i giorni», dice l’avvocato mentre sorseggia una tazza di te. «Solitamente arrivo alle 7.30. Oggi, prima di lei, ho incontrato un importante banchiere italiano. Dovevamo parlare di governance. Un tema che mi ha sempre appassionato. Sa, fui io a strutturare l’accomandita della famiglia Agnelli, nel 1987».

La storia dell’avvocato Grande Stevens è legata a doppio filo a quella di Fiat e della dinastia Agnelli. La sua vicinanza all’avvocato e storico capo azienda del Lingotto, Gianni Agnelli, gli è valsa il soprannome con cui tanti lo conoscono. Ma si tratta comunque di un capitolo che comincia nella seconda stagione della sua vicenda professionale. La prima, invece, è legata a Napoli. La città dove ha studiato e si è laureato, mentre lavorava nel pastificio di suo nonno («mio padre è morto quand’ero un ragazzo e io dovevo prendermi cura di mia madre»). La città dove, dopo aver discusso la tesi in diritto commerciale con il professor Alessandro Graziani, ha mosso i primi passi d’avvocato nello studio di Francesco Barra Caracciolo.

A occuparsi di diritto commerciale, all’epoca, erano davvero in pochi. L’avvocatura era una professione legata anzitutto all’attività giudiziale e se, ancora oggi, è vero che la stragrande maggioranza delle toghe italiane concepisce il proprio ruolo e la propria funzione soltanto nel processo, è facile immaginare quale potesse essere lo scenario allora.

Grande Stevens si trasferisce a Torino nel 1953. Ma tutto nasce per caso, da un mancato incontro.

A luglio di quell’anno, Paolo Greco, professore nel capoluogo piemontese e direttore della Rivista di diritto commerciale, avrebbe dovuto partecipare a un matrimonio a Napoli. Grande Stevens decide di recarsi alla cerimonia per incontrare il giurista e chiedergli consigli sui suoi studi. Ma resta deluso. «Il professore non era più venuto», racconta, «perché era morto il suo amico e straordinario avvocato: Dante Livio Bianco». Grande Stevens, allora, decide che toccherà a lui recarsi a Torino per conoscere il professore.
Parte. L’idea, ovviamente, è quella di tornare a breve nella sua Napoli. Ma le cose vanno diversamente. Bianco, ex comandante partigiano e studioso di diritto processuale civile, fino a quel momento era stato il principale aiuto di Manlio Brosio, importante avvocato torinese che, poco prima della scomparsa del suo collega, aveva accettato la nomina di ambasciatore italiano a Mosca ed era partito per la Russia.

FRANZO GRANDE STEVENS

Quando Grande Stevens arriva a Torino, lo studio Brosio è sostanzialmente sguarnito. Greco e altri esponenti dell’ex Partito d’Azione, come Norberto Bobbio e Alessandro Galante Garrone, decidono di “adottare” professionalmente il giovane giurista arrivato in treno da Napoli e affidargli le cure dello studio del loro amico scomparso. «Praticamente mi “sequestrarono”», ricorda divertito Grande Stevens, «facendomi alloggiare in una camera ammobiliata dalla cognata di Livio (Bianco, ndr) in via Cibrario».

Comincia così il suo lavoro a Torino. L’avvocato si trova a collaborare anche con Piero Calamandrei, il quale aveva una consuetudine di rapporti con lo studio Brosio. C’è una foto, scattata nel 1955, che lo ritrae assieme a Calamandrei e Ferruccio Parri, ex capo partigiano durante la guerra di liberazione e primo presidente del Consiglio alla guida del governo di unità nazionale istituito alla fine della Seconda Guerra mondiale. «Parri era stato accusato di delazione dal direttore del Secolo d’Italia. Riuscimmo a difenderlo con successo», prosegue l’avvocato. Cominciano ad arrivare anche i primi incarichi in ambito societario. «Mi dettero la consulenza della Sip, la società idroelettrica piemontese». E cominciano anche i primi contatti con i grandi imprenditori come Michele Ferrero. «Mi occupavo di marchi e diritto industriale. Un giorno mi chiamò, preoccupato di non poter usare il nome Mon Chérie per un cioccolatino che s’era inventato. Il problema era che esisteva un bar, a Cuneo, che aveva quel nome. Sa come la risolvemmo? Comprammo il bar».

Il primo incontro con Gianni Agnelli, invece, risale agli inizi degli anni Sessanta. «Un giorno ricevetti una telefonata dal direttore generale della Ifi, tal Furlotti, che mi chiese se fossi disponibile a incontrare l’Avvocato che aveva espresso il desiderio di parlarmi». Agnelli accoglie Grande Stevens dicendogli che ha sentito parlar bene di lui. In quell’occasione, poi, affida all’avvocato il mandato per la vendita di una sua azienda di macchine utensili a dei compratori americani. Un test. «In quell’occasione», ricorda Grande Stevens, «l’Avvocato mi disse che suo nonno, quando ne ebbe bisogno, domandò chi fosse il migliore avvocato civilista in Italia. Gli indicarono il napoletano Vincenzo Infolla. E a questo punto la storia si ripeteva», con un altro avvocato napoletano. Nello studio di via del Carmine, i due avvocati si incontrano per discutere di lavoro e spesso si intrattengono a parlare di storia. «L’Avvocato era particolarmente interessato alle vicende del Risorgimento. Non era raro che si mettesse alla finestra della mia stanza per contemplare l’obelisco che ricorda la ratifica della legge Siccardi (quella che abolì i Fori ecclesiastici stabilendo che anche i clericali andavano giudicati dai Tribunali ordinari) in piazza Savoia».

JHON ELKANN E FRANZO GRANDE STEVENS

Grande Stevens diventa sempre più punto di riferimento per la famiglia e il Gruppo. Segue l’acquisizione di Toro assicurazioni, l’ingresso nel capitale Fiat della Lafico e il primo tentativo di alleanza con General Motors. Ma il merito più rilevante, probabilmente, è «quello di aver costruito un sistema giuridico che assicurasse alla famiglia dell’Avvocato il controllo delle attività economiche e imprenditoriali del loro Gruppo». Mentre il momento più difficile è stato «quello seguito all’operazione di equity swap che nel 2005 consentì alla famiglia Agnelli di non perdere il controllo di Fiat». L’operazione entra nel mirino della procura di Torino e delle autorità regolamentari per la presunta scarsa trasparenza nelle comunicazioni al mercato sui movimenti in corso. Comincia una lunga trafila giudiziaria che finisce con il proscioglimento di tutti i soggetti coinvolti, con sentenza della Cassazione nel 2013. Un anno più tardi, poi, arriva quello che si può senz’altro definire un colpo di scena. La Corte europea dei diritti umani sancisce che l’Italia violò la Convenzione dei diritti dell’uomo in occasione del processo sull’equity swap Ifil-Exor. In un provvedimento diventato storico si legge che l’Italia non aveva rispettato l’articolo 4 del protocollo 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che sancisce che non si può essere giudicati e puniti due volte per lo stesso reato (gli imputati, infatti, avevano già subìto una condanna in via amministrativa). A rappresentare l’avvocato Grande Stevens, in questo procedimento come nel precedente, ci sono penalisti  di chiara fama (Cesare Zaccone e Franco Coppi) e Michele Briamonte, managing partner dello studio dal 2010 e responsabile del suo “nuovo corso” (si vedano, a tal proposito, gli articoli pubblicati sui numeri 76 e 62 di MAG).

SERGIO MARCHIONNE GIANLUIGI GABETTI FRANZO GRANDE STEVENS

Oggi Fiat, anzi Fca, è un gruppo internazionale. Più americano che torinese, dopo la fusione con Chrysler. Merito o colpa dell’ad, Sergio Marchionne? «Assolutamente merito», risponde Grande Stevens. «Umberto Agnelli, sul letto di morte lo disse chiaramente a me e Gabetti: “È lui quello giusto”. Aveva ragione».

Anche la professione è molto cambiata in questi sessant’anni. La proletarizzazione della classe forense sembra un problema senza soluzione. «È uno stato di cose inevitabile. In Italia ci sono 240mila avvocati. Che senso ha?». Adesso si parla anche di istituire per legge la figura dell’avvocato dipendente negli studi legali. «Non credo servirà a molto», conclude Grande Stevens. «La nostra professione è legata all’andamento dell’economia del Paese. Se l’Italia non ritorna a funzionare e a crescere, ogni altra iniziativa resterà senza esito. Ma serve una classe dirigente nuova e diversa da quella del recente passato, oramai popolata da figure pagliaccesche».

 

 

nicola.dimolfetta@lcpublishinggroup.it

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