Fase 2 e smart working: gli avvocati sono (davvero) pronti?
di nicola di molfetta
Emergenza coronavirus, il peggio è passato? Sono in tanti a chiederselo. In pochi a rispondere e ancora meno a dire di sì. Tuttavia qualcosa si muove. E guardare avanti, pensare fin da ora al mondo che sarà, è la grande opportunità che nessuno può mancare di cogliere.
La questione smart working sembra destinata ad avere un peso rilevante nel prossimo futuro. Lo sdoganamento del lavoro da remoto, derivato dal ricorso coatto a questa formula organizzativa in epoca di distanziamento sociale, impone scelte nuove almeno su due piani.
Il primo è quello logistico. Serviranno ancora sedi imponenti, metri quadri, palazzi, scalinate e mega sale riunioni?
Il secondo, invece, è gestionale: considerato che limitare il ricorso allo smart working sarà considerato inaccettabile oltreché retrogrado, sarà fondamentale provvedere in tempi molto rapidi alla creazione di nuovi modelli operativi. Ma quanti sono gli studi che possono dirsi già pronti?
Partiamo dal primo punto e mettiamo subito le carte in tavola. Immaginare che il prossimo futuro degli studi legali sia destinato alla totale dematerializzazione è assolutamente illusorio. Non sarà così. Così come è a dir poco ingenuo pensare a una transizione di massa verso la dimensione virtuale dello studio con tanto di addio agli uffici. Impensabile.
Ci potrà essere, invece, una revisione delle policy logistiche. Una riconsiderazione dell’effettivo fabbisogno di spazi fisici. Questo è persino probabile, soprattutto se si considera che quello che si prospetta è un futuro in cui la pressione tariffaria si farà sempre più rilevante e che la necessità di rivedere la struttura dei costi di queste organizzazioni diventerà un elemento imprescindibile.
La questione più complessa, però, non riguarda il dilemma “ufficio sì, ufficio no”. Essa è invece collegata alla enorme sfida organizzativa che si pone per strutture che avevano appena imparato a gestire rilevanti masse di professionisti (raccolti in sedi fisiche) e che, adesso, dovranno riuscire a far funzionare la macchina con molti suoi elementi collocati, per scelta e per diritto, in altro luogo.
Perché, se di vero smart working si potrà cominciare a parlare, bisognerà poter parlare di lavoro orientato agli obiettivi e non più al consumo di ore/uomo. Un salto culturale vero. Al quale sono poche le strutture che si dicono preparate.
A tale proposito sono interessanti alcuni dati recentemente pubblicati dall’Osservatorio Professionisti e Innovazione Digitale del politecnico di Milano. L’ente fa sapere che nel 62% degli studi legali c’è già la possibilità di fare smart working, anche se nel 42% dei casi si tratta di una possibilità concessa in modo “informale”. Più in dettaglio, “i grandi studi sono molto attrezzati in termini di tecnologie per lavorare in mobilità (88%), flessibilità di luogo di lavoro (il 97% permette di lavorare da casa, il 69% da altri luoghi), organizzazione del lavoro per obiettivi (69%) e ripensamento degli spazi (44%)”.
Avere gli strumenti e utilizzarli nel modo più efficace sono due cose diverse. La prima non implica necessariamente la seconda. E chi vuole davvero sfruttare la leva dello smart working per ripensare l’organizzazione del proprio studio dalla Fase 2 in poi, deve tenere in considerazione la necessità di rifondare senza mezze misure le modalità operative dell’associazione, così come la sua delivery e la gestione dei rapporti tra i professionisti di ogni ordine e grado. Non è una sfida impossibile. Ma va preparata per tempo.
Lavorare in modo smart potrà diventare un importante vantaggio competitivo e un formidabile elemento di differenziazione sul mercato. Ma attenzione a non pensare che si tratterà solo di consentire ai professionisti di studio di lavorare da remoto. Serviranno job description puntuali e una costante attività di project management. Almeno per cominciare.
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