Se il secondment diventa una (vera) occasione di business

di nicola di molfetta

Secondment. In italiano, distaccamento. Così amato dalle direzioni legali aziendali (che ne beneficiano). Così detestato dagli studi professionali (che se ne devono occupare). «Lo scorso Natale – racconta in via riservata il socio di uno studio – ho dovuto gestire una richiesta di secondment di un cliente il giorno della vigilia. Per fortuna, alla fine, sono riuscito a trovare una risorsa da mandare».

Per chi non lo conoscesse, il fenomeno del secondment è quello per cui gli studi legali inviano in distaccamento uno dei loro avvocati, per un certo periodo, nella direzione legale di un cliente. Una forma di supporto all’attività dell’azienda che ha uno staff insufficiente a gestire momenti di picco dell’attività e non intende investire (in maniera permanente) in nuove risorse per fronteggiare questi momenti di super-lavoro.

In Italia, tendenzialmente, gli studi legali “subiscono” la richiesta dei clienti. All’estero, invece, da qualche anno a questa parte, molte law firm hanno capito che, data la diffusione del fenomeno, la creazione di un servizio di avvocati a tempo può diventare una straordinaria occasione di business. L’importante è guardare le cose con un po’ di distacco. Fare due passi indietro. Osservare lo scenario nel suo insieme.

Da una parte ci sono i clienti che, come abbiamo detto, spesso e volentieri hanno bisogno di “una mano” legale in servizio pro tempore ma effettivo. Dall’altra ci sono sempre più avvocati che non vogliono più fare la vita dello studio legale, cercano flessibilità e preferiscono essere impiegati di volta in volta su singoli progetti.

Unendo i puntini, sono nate diverse iniziative (di contract lawyering o flex offering, possiamo chiamarle come meglio ci piace) che hanno cominciato a far entrare somme di denaro tutt’altro che indifferenti nelle casse di molte law firm internazionali.

Di recente, il sito internet di The Lawyer ha riportato i risultati dell’ultimo anno ottenuti da Adaptive, il servizio di avvocati on demand lanciato da Simmons & Simmons nel 2014. In appena quattro anni, questa linea di business, secondo quanto riportato, ha raggiunto un giro d’affari di 10 milioni di sterline. Registrando, nell’ultimo esercizio, un triplo salto in avanti con una crescita del 230%.

Adaptive non è la sola iniziativa del genere. Peerpoint, iniziativa targata Allen & Overy, muove un fatturato stimato in 25 milioni di pounds. Vario, la versione di Pinsent Masons’, ne realizza circa 7.

Adaptive ha visto crescere il proprio organico da 20 a 95 professinisti in meno di cinque anni. E, dato molto interessante, se da un lato il 65% delle risorse che impiega sono affidate ai clienti, dall’altro il restante 35% opera a supporto della law firm stessa che, esattamente come i suoi clienti, si trova periodicamente a dover gestire fasi di super lavoro.

Ad oggi, in Italia, abbiamo pochissimi casi di studi che si sono strutturati per offrire un servizio di questo genere o quantomeno simile. Abbiamo recentemente parlato dell’avvio di project double da parte di Dentons. Anche se forse è In2Law, di Deloitte Legal, l’iniziativa che si avvicina di più all’idea.

Il punto è che i casi (all’estero) che abbiamo citato dimostrano chiaramente che la flessibilità non si trova solo nelle pretese di chi compra, ma deve albergare anche in maniera piena e consapevole nella testa di chi si occupa di fornire servizi legali.

La costante ricerca di nuove strade per alimentare l’attività delle proprie organizzazioni non porta a nulla se non si comincia a studiare la domanda con approccio imprenditoriale e se non si comincia a dare vita a nuove linee di business che sappiano rispondere in maniera specifica a quella domanda. Serve spirito di iniziativa, capacità di visione e soprattutto: pensiero laterale. Non esiste solo un modo per essere avvocati.

I legali a chiamata stanno diventando una realtà diffusa in molti mercati. In Italia la domanda, sicuramente c’è. E l’offerta?

 

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rosailaria iaquinta

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