Bernardini De Pace: «Mi occupo di diritto della persona»

L’avvocata, celebre per aver assistito tanti vip nelle loro separazioni, è oggi un brand legale a sé stante. Il (breve) ruolo nel divorzio Totti-Blasi, l’apparizione a Belve e la toga di Forum sono le avventure più recenti degli oltre quarant’anni di carriera. A MAG, racconta il suo approccio alla professione. E sulle avance degli studi multidisciplinari: «Ne ho ricevuta una. Ma non voglio essere colonizzata»

di giuseppe salemme

«Siamo una rivista che tratta di tematiche legali, ma in versione un po’ più pop».
«Bene, io sono molto pop. Anche molto rock».

È stato questo il primo scambio di battute tra MAG e Annamaria Bernardini De Pace, l’avvocata divorzista più famosa d’Italia. Prima dell’intervista telefonica, chiede all’autista se nel tragitto sono previste molte gallerie: «Sono sempre in auto», mi dice.

Dal 1989, lo studio legale Bernardini De Pace ha assistito decine di vip nelle loro separazioni. La cantante Romina Power fu una delle prime celebrità seguite, nel divorzio da Al Bano Carrisi: erano i primi anni 2000. Poi ci sono state, tra le altre, le assistenze a Eros Ramazzotti nel divorzio da Michelle Hunziker; a Rosanna Schiaffino nello scioglimento dell’unione con l’imprenditore Giorgio Falck; a Flavio Briatore nella separazione da Elisabetta Gregoracci.

Ma non è grazie all’avvocata De Pace che conosciamo i nomi dei suoi assistiti. Pur collaborando con diverse testate come giornalista pubblicista (pochi sanno che fu proprio Indro Montanelli, negli anni ‘80, a consigliarle la carriera da divorzista), e pur essendo una comunicatrice abile e carismatica (nonché maniacale, nel modo certosino in cui raccoglie tutte le sue apparizioni su tv e carta stampata nei suoi canali web), l’avvocata è da sempre restia a confidare dettagli sui suoi assistiti.

A eccezione per il caso di qualche vip rimasto indietro con il saldo delle parcelle, non è riuscita a farla sbottonare più di tanto nemmeno la belva Francesca Fagnani, quando l’ha intervistata nel 2022. Pochi mesi prima, l’ex calciatore Francesco Totti aveva ingaggiato la De Pace per gestire la separazione da Ilary Blasi; ma la collaborazione tra i due durò poco. «C’era troppa gente intorno. Io sono una prepotente e volevo comandare» ha spiegato poi l’avvocata, la cui schiettezza è nota almeno quanto le celebrità che assiste.

Anche se ormai l’avvocata è una celebrità a sé. Ha fatto delle iniziali Abdp un brand vero e proprio, mettendo in pratica il concetto di personal branding di cui tanti professionisti si riempiono la bocca oggi. Dal 2024 è anche la giudice di Forum, storico programma tv Mediaset che mette in scena e risolve casi processuali basati su fatti reali.

Ma tra i panni di giudice, giornalista, psicologa e madre (sia biologica che professionale), nella chiacchierata con MAG Annamaria Bernardini De Pace veste soprattutto quelli dell’avvocata. Anzi, dell’avvocato, al maschile.

«Preferisco essere chiamata “avvocato”. Il ruolo dev’essere neutro: non voglio essere cercata perché sono femmina o maschio, ma perché sono un bravo avvocato»

Già che ci siamo, quale appellativo preferisce? Divorzista? Matrimonialista? Familiarista?
Sono un avvocato che si occupa di diritto della persona.

Ha ribadito più volte che ritiene che i suoi veri clienti siano non tanto le coppie che divorziano, ma i loro figli…

Considero i figli prima di ogni altra cosa. Sono una madre di natura, anche con i miei ragazzi in studio: ne ho formati più di 400 in quarant’anni. Ma è la legge stessa che dice che il “superiore interesse del minore” viene prima di tutto. Quindi l’imperativo categorico in tutto ciò che faccio è considerare l’interesse del minore; e farlo capire, prima al mio cliente e poi al giudice. Non faccio niente che non sia in funzione di quell’interesse.

Crede sia per questo che quella dell’avvocato divorzista sia storicamente una figura a predominanza femminile?

Le donne in genere sono più accoglienti, hanno più a cuore l’altro. Oggi nel mio studio, tra avvocati e praticanti, lavorano 22 avvocati: venti donne e due uomini. Per molti anni il mio è stato uno studio di sole donne. Ma è anche perché prima la clientela era principalmente femminile: nei primi dieci anni in cui ho fatto questo mestiere ho avuto il 90% di clienti donna. Poi, progressivamente, sono aumentati gli uomini; e in questo momento sono loro la maggioranza. Direi circa il 60%.

Quindi è d’accordo con chi dice che la storia del diritto di famiglia è anche un po’ la storia del riequilibrio progressivo dei ruoli di genere?

Certo. E la prova è che oggi le donne non sono più le vittime discriminate di un tempo. Sono bravissime, sanno fare da sole, spesso non hanno nemmeno bisogno di venire da me. Oggi vengono più gli uomini: perché a me piacciono le vittime, mi piace stare dalla loro parte e difenderle. E oggi ci sono più vittime tra gli uomini che tra le donne.

C’è stato un momento in particolare in cui si è accorta che qualcosa stava cambiando in questo senso?
Nei primi anni arrivavano da me donne senza lavoro, senza soldi, senza conto in banca. Non sapevano nemmeno quale fosse la banca del marito. Poi hanno iniziato a lavorare. E a presentarsi da me non solo con soldi e conti in banca, ma con le fatture e le prove del tenore di vita che conducevano.

Quindi ora non tratta più diversamente clienti uomini e clienti donne? A Belve ha detto che alle donne consente di dilazionare i pagamenti, mentre agli uomini no…

Le mie prime clienti, come ho detto, erano donne senza lavoro, o che guadagnavano pochissimo. Il minimo gesto di solidarietà che potessi fare era consentire loro di pagare a rate. Anche se in realtà in quegli anni ho accettato di tutto: tortellini fatti a mano, centrini ricamati… le clienti mi portavano le cose che per loro erano importanti e che avevano a disposizione. I famosi polli manzoniani.

E oggi?
Se mi dovesse capitare un uomo senza lavoro, o che guadagna poco, farei la stessa cosa.

Quanto ci hanno messo il diritto, prima, e i giudici, poi, a recepire il mutamento degli equilibri di genere?
Direi poco, perché gli avvocati sono stati bravi a farlo notare e i giudici bravi a capirlo. Dal 2006 l’affidamento dei figli condiviso tra i due ex coniugi è diventato la regola. E ora spesso vediamo anche il collocamento presso i padri, a cui quindi viene assegnata anche la casa coniugale, che prima andava quasi sempre alle madri.

Ci sono dei passi avanti che ancora auspica?

Ce ne sono tanti. Personalmente, trovo che la riforma Cartabia abbia avuto un effetto negativo. Ha aumentato le ipotesi di litigiosità, e quindi aumentato i tempi dei giudizi invece di accorciarli; dimenticando che, per i bambini dagli zero ai diciotto anni, un anno vale molto di più di quanto valga per noi adulti. Le cause di separazione e di divorzio non dovrebbero durare mai più di 4-5 mesi; e invece vediamo delle prime udienze fissate anche a 7 mesi dalla richiesta. Immagina come vivono i figli in quel lasso di tempo? Dopo che magari sono venuti a sapere che il padre accusa la madre di averlo tradito, o viceversa? Che vita può esserci in quella casa?

Cosa cambierebbe del sistema attuale?
Pretenderei avvocati ultra-specializzati. Accorcerei tutti i tempi, anche cambiando gli atti richiesti: va bene depositare tutti i documenti del mondo, ma cinque atti prima dell’udienza presidenziale è una follia. Piuttosto, meglio la mediazione obbligatoria.

Molti addetti ai lavori mi hanno detto che una volta le cause di divorzio vertevano principalmente sui soldi, mentre oggi vertono principalmente sui figli. È così anche nelle seprazioni tra vip, o comunque tra persone facoltose?

Sì, soprattutto perché è tramite i figli che assume fondamentale importanza il fattore della casa familiare. Su questo punto ho proposto una soluzione, che alcuni tribunali intelligenti hanno adottato. E cioè: non si assegna più la casa al padre o alla madre, ma ai figli; e sono i genitori ad alternarsi. Così i figli non devono spostarsi in continuazione, e affrontare problemi come dare indirizzi diversi agli amici, stare perennemente a fare le valigie, dimenticare il computer di qui o di là. Trovo sia una crudeltà costringerli a subire tutto questo. Meglio che i figli restino a casa e siano i genitori ad adattarsi alle loro esigenze. Anche perché sono stati i genitori a combinare casini e ad aver rotto la famiglia.

Un altro luogo comune è che i divorzi tra ricchi siano più simili a scissioni tra due società che alla separazione di una coppia…

Non sono d’accordo. Una scissione tra due società è impersonale. Un divorzio tra due persone è una rivoluzione totale del proprio programma di vita, dell’investimento sentimentale, delle relazioni con le rispettive famiglie, figli, amici. Ci sono persino figli che rinunciano ai loro amici per vergogna che i loro genitori si separino. Il divorzio è una tragedia emotiva, seppur di gradazione variabile.

Spesso mi sento dire dagli avvocati che con i clienti bisogna essere anche “un po’ psicologi”. Come è cambiato il modo in cui si relaziona ai suoi clienti nel corso degli anni?

Io ho studiato anche psicologia; non mi sono laureata solo per mancanza di tempo. Ma per i clienti si fa di tutto: dal professore di diritto, allo psicologo, al coach per prepararli ad affrontare il coniuge o il giudice. Tutto.

Gli avvocati hanno un rapporto complesso con la comunicazione, anche a causa dei vincoli deontologici: come lo gestisce?

Non parlando mai dei miei clienti. A maggior ragione se sono famosi: le centinaia di giornalisti che mi contattano non ricevono mai soddisfazioni.

Però lei ha una personalità estroversa, e comunica tanto.

Certo, parlo di altre cose. Sono anche giornalista pubblicista, mi interesso a vari ambiti del diritto e del sociale, e collaboro con varie testate.

La comunicazione rientra mai nella strategia su come gestire un caso?

Mi capita di vedere dei talk show con gli avvocati che parlano in continuazione dei loro clienti e delle loro cause. Io non l’ho mai fatto. Però se chiede a chiunque degli atti che scrivo per i tribunali, le dirà che scrivo da giornalista e non da avvocato. Perché voglio che i clienti comprendano! Spesso mi capita ancora di leggere cose scritte da colleghi per cui mi chiedo: “Ma cosa avrà mai potuto capire il suo cliente? È un perito tecnico, non sa il latino!” Diciamo che, in generale, sono allergica alle circonvoluzioni degli avvocati: le trovo sbagliate. È una questione di rispetto, prima di tutto per il cliente.

Il suo studio ha sette sedi. Milano, Bergamo, Padova, Varese, Ameglia, Roma, Napoli e Bari. Come mai così tante?

Gli avvocati che ho formato durante la mia carriera venivano da tutta Italia; e a un certo punto molti hanno sentito l’esigenza di tornare nelle loro città d’origine. E io, parimenti, non volevo rinunciare a loro, erano troppo bravi. Così ciascuno ha aperto una sede dello studio: l’avvocato Rinaldi a Roma, l’avvocato Di Bernardo a Padova, e così via… È una motivazione sempre un po’ materna alla base, ma c’è anche quella professionale: non voglio perdere delle persone davvero capaci e preparate.

Mentre i rapporti con i colleghi di altri studi? Come sono?
Dipende. Alcuni sono amichevoli, altri molto critici. Io sono una che dice sempre la verità, anche in udienza. E capita di non suscitare le simpatie dei colleghi; ma il mio obiettivo è avere quelle dei clienti, non dei colleghi.

Diversi studi legali multidisciplinari ultimamente stanno investendo nel diritto di famiglia, ingaggiando professionisti specializzati o integrando interi studi più piccoli. A lei è mai arrivata qualche proposta in tal senso?

Sì, ne ho ricevuta una. Era un’offerta importante, ma io non voglio essere colonizzata. Quindi è impossibile che risponda.

Perché?
Nei processi mi capita di trovarmi di fronte a colleghi che lavorano in questi studi. Ma spesso non mi sembrano specializzati; fanno degli atti che con non c’entrano niente con quello di cui mi occupo io. Io mi occupo solo ed esclusivamente di diritto della persona, non delle società. Anche all’inizio della mia carriera, quando per un breve periodo mi ero occupata di lavoro o di penale, per me si trattava sempre di diritto della persona.

Quando decise di passare a occuparsi di diritto di famiglia?

Fu Montanelli, nel 1987, a farmi notare che il concetto di matrimonio stava cambiando: “Prima le mogli si tenevano le amanti del marito come se niente fosse, anche per una vita intera, perché era considerato un dovere sociale” mi disse. “Mentre ora il matrimonio ha come prima variabile l’amore. E quindi vedrai quanti divorzi ci saranno”. E aveva ragione, sono aumentati notevolmente. Mentre i matrimoni sono diminuiti: immagina se non fossero diminuiti, quanti divorzi in più ci sarebbero!

Come sta andando l’esperienza da giudice di Forum?
Bene. È più impegnativa di quanto immaginassi, ma rimane comunque un divertimento. Preparo circa 8-9 sentenze al mese, cercando di scrivere in termini chiari, e di richiamare più il contenuto degli articoli che non il numero in sé. Per provare a far capire a chi guarda qualcosa di utile: non tutti possono permettersi di andare dagli avvocati cari, e mi piace pensare di aiutarli a capire il funzionamento del diritto.

È con questa idea in mente che ha accettato l’incarico? Dopotutto è un ruolo che storicamente è stato ricoperto da figure importanti: Tina Lagostena Bassi fu tra le prime giudici della trasmissione…

Tina era un’amica. Anche lei l’ha fatto con uno spirito molto populista, cercando di arrivare al cuore e al cervello delle persone. Io ho accettato l’incarico perché Barbara Palombelli (la conduttrice di Forum, ndr) me lo chiedeva da dieci anni. Ho pensato che, in fondo, alla mia età potevo fare qualcosa che mi divertisse. Ma in realtà la mia intenzione è avvicinarmi al pubblico: far capire che la giustizia non è quel luogo osceno, cattivo, causa di rabbia e indignazione, come spesso si vede. È un luogo in cui il diritto e la libertà possono esprimersi. E se le sentenze che scrivo sono comprensibili da tutti, anche al lattaio o alla casalinga, magari anche loro potranno capire la legge e le dinamiche giudiziali; e risolversi i problemi da soli. Così che non rimarrà più nemmeno un cliente per i miei colleghi (ride, ndr).

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nicola.dimolfetta@lcpublishinggroup.it

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