Trevisan & Cuonzo ne fa 30 e punta a 20
di giuseppe salemme
Un busto del Beccaria accoglie chi entra negli uffici di via Brera dello studio Trevisan & Cuonzo; pare che il più noto tra i padri fondatori del nostro diritto abbia vissuto in quegli spazi, circa due secoli fa. Un’ampia sala adiacente è invece dominata dai “tagli sulla tela” di fontaniana memoria: è lì che Mag ha incontrato Gabriele Cuonzo, avvocato e managing partner dello studio da lui co-fondato assieme a Luca Trevisan nel 1994.
Da quel momento sono passati trent’anni: sono tanti, anche per una boutique nata già con l’idea di essere «moderna». C’era quindi molto da raccontare: dopotutto la crescita dello studio, specializzato nelle mille sfaccettature della proprietà intellettuale, è andata di pari passo con quella della città di Milano, diventata oggi una delle capitali mondiali del design.
Cuonzo non si è tirato indietro: ha ripercorso la storia dello studio dai primi anni, e dalle prime difficoltà, fino all’espansione dell’ecosistema di servizi offerti e all’enorme crescita di ricavi dell’ultimo decennio. Senza tralasciare temi come la trasformazione del mercato e dei clienti; le difficoltà odierne della professione; le prospettive di passaggio generazionale. E la crescente necessità delle associazioni professionali di strutturarsi e managerializzarsi.
Facciamo subito il passo indietro più grande. Trent’anni fa lei era un avvocato all’inizio della carriera: cosa l’ha portata, insieme all’avvocato Trevisan, a fondare uno studio legale?
Sia io che Luca negli anni ‘80 lavoravamo in piccoli studi di proprietà intellettuale. Di solito erano “dominati” da una figura accademica, un professore che radunava intorno a sé i suoi migliori studenti e così creava un nucleo professionale. L’avvocato era un intellettuale umanista: pur avendo a che fare con business, tecnologia e conoscenza in senso lato, il suo substrato culturale era molto classico. Si iniziò a notare una sorta di contraddizione tra questo approccio tradizionale e le esigenze delle nuove multinazionali, che avevano bisogno di processi veloci, pareri scritti già con un’impostazione economica, o magari in inglese. Gli avvocati dell’epoca magari erano giuristi raffinatissimi, ma spesso l’inglese non lo conoscevano.
Avete visto spazio per qualcosa di diverso…
Oggi nessun giovane avvocato che vuole mettersi in proprio lo fa senza un’idea di business. All’epoca, per gli stessi motivi di cui sopra, invece non era comune. Noi volevamo creare qualcosa che riprendesse gli standard di lavoro che iniziavano a emergere negli studi internazionali dell’epoca: una boutique moderna, con rapporti interni tra professionisti fluidi, la rinuncia al piedistallo accademico. Che si muovesse veloce, parlasse inglese e avesse modalità di parcellazione chiare e comprensibili: fummo tra i primi a implementare la tariffa oraria. Infine, e qui c’entrate anche voi, avemmo l’intuizione di dotarci di un’agenzia per comunicare quello che facevamo alla stampa, nel rispetto delle regole deontologiche ma con l’intento di darci una dimensione mediatica.
Cosa ricorda di quei primi anni?
Partimmo con competenze già abbastanza ampie: sia la soft Ip (copyright, marchi, ecc.) che l’hard Ip (brevetti). La nostra idea era da subito quella di coprire tutto il settore. Nel 1995 eravamo già una decina di avvocati, per l’epoca già abbastanza grandi. A inizio anni 2000 una parte di questo primo nucleo di professionisti ci lasciò e proseguì altrove: ma avevamo già dei team più strutturati, all’interno dei quali abbiamo trovato il nostro assetto di oggi. Il core business dello studio si è poi ampliato includendo settori strategici come l’antitrust, la responsabilità del produttore e l’m&a legato agli intangibles.
La principale difficoltà che affrontaste?
L’equilibrio finanziario: fiscalità, gestione dei flussi, parte amministrativa. In generale, credo che gli avvocati non abbiano una grande mentalità finanziaria. E poi gli studi legali in generale dipendono unicamente dalla volontà dei clienti di iniziare una causa o fare un’operazione: cose non programmabili che quindi rendono il fatturato estremamente variabile, soprattutto all’inizio. Questo significa che magari in un anno scopri di aver investito troppo rispetto a quanto hai ricavato, o che hai troppe persone rispetto a quelle che ti servivano.
Come ne siete venuti a capo?
Dotandoci di un’impalcatura amministrativa e finanziaria fortissima, oggi guidata da una professionista straordinaria che non è un avvocato, Antonina Giaimo. Grazie alle strutture che abbiamo messo in piedi oggi riusciamo ad avere visibilità su tutti i processi finanziari, a programmare: a fare quello che fa un’impresa. È tra i fattori che ci hanno permesso, negli ultimi otto anni, di triplicare il nostro fatturato. E ci ha consentito di mantenere una marginalità alta, il che ci permette di retribuire i nostri professionisti come devono. Che, le dirò, è un fattore cruciale per tutto lo studio: ogni persona per noi incorpora un know-how preziosissimo che non vogliamo perdere.
Per tenersi un avvocato conta solo l’aspetto retributivo?
Conta tutto: il clima all’interno dello studio, una situazione di lavoro contemporanea, i momenti formativi sia a livello professionale che culturale. Però alla fine credo che il fattore decisivo sia quanto l’avvocato riesce a portare a casa. E su questo da parte nostra serve un’attenzione altissima, perché dobbiamo essere in grado di competere con studi molto più grandi e redditizi. E l’unico modo per farlo è essere più profittevoli, e pagare i nostri professionisti non quanto la concorrenza, ma di più.
Molti suoi colleghi ultimamente lamentano una certa scarsità di giovani professionisti con voglia di misurarsi con la professione. Oggi nota maggiori difficoltà a trovare giovani avvocati talentuosi?
Glielo dico chiaramente: è una fesseria. Tutte le generazioni giudicano severamente quelle successive; ai nostri tempi i nostri maestri dicevano esattamente le stesse cose di noi (e anche tra i maestri, c’erano quelli buoni e quelli cattivi). Ci sono ragazzi bravissimi, ma il talento va trovato. E va coltivato: questo sarà un discorso un po’ politico, me lo conceda.
Prego.
Oggi gli studi sono essenzialmente delle imprese, con una fortissima impronta verso l’efficientamento e verso il profitto. Non sono più le scuole artigianali che erano in passato. Questo in parte è inevitabile; però noi cerchiamo di mantenere quel nucleo di artigianalità intellettuale. Se muore, muore anche la professione. Un giovane oggi non può essere trattato nello stesso modo in cui un professore trattava il suo praticante trent’anni fa; anche perché quel rapporto includeva una componente paternalista che oggi non sarebbe accettata. Quello che si può fare è far sì che il lavoro che affidiamo alle nostre persone abbia un nucleo di qualità intellettuale; che non sia standardizzato. Questo fa sì che il talento di una persona possa venir fuori.
E che quella persona non possa essere sostituita da una macchina tra qualche anno…
È evidente che una…
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