Vetiver
un racconto di Nicola Di Molfetta*
Entrato nella stanza 237 al sesto piano del Grand Hotel sul mare, l’avvocato Arnaldo Marini si compiacque di trovare il bagaglio già sistemato, proprio come aveva richiesto: camicie appese e abito per la serata di gala perfettamente stirato. L’essenza del lusso stava nella cura per i dettagli: di questo, ormai, l’avvocato Marini si diceva pienamente convinto. «Camicie appese e abito per la serata di gala perfettamente stirato come da lei richiesto, Avvocato!». «Grazie, caro». «Grazie a Lei!».
Adorava quel suono nella voce del personale del Grand Hotel sul mare. Il tono che esprimeva chiaramente una deferenza maiuscola, ogni volta che inservienti e lavoratori gli rivolgevano la parola.
A nemmeno quarant’anni, l’avvocato Arnaldo Marini aveva già molto di cui andare fiero: due lauree, la prima in Legge e la seconda in Economia e Commercio; un master in Laws alla Columbia University di New York; il titolo di partner in uno degli studi legali più potenti e ricchi del mondo. A tutto questo, poi, si aggiungevano il rispetto e gli ossequi del personale del Grand Hotel sul mare, struttura che nel corso degli anni aveva ospitato capi di governo, grandi artisti, e nomi leggendari del mondo della vela. Winston Churchill, Clemente Mastella, Pablo Picasso, Alberto Sordi e Giovanni Soldini: un pantheon in cui, adesso si poteva leggere anche il suo nome: Edgardo Marini, vergato a caratteri cubitali: responsabile dell’organizzazione dell’annuale incontro soci dell’Italian branch di Right & Fight Llp.
Il lusso, per l’avvocato Marini, era una gratificazione necessaria dopo tutto quel lavoro. Milleottocentosessantasette ore fatturate solo nei primi sette mesi dell’anno. Se pienamente meritato, come nel suo caso, il lusso era da considerare un diritto fondamentale e inalienabile. E che questo fosse il suo caso, ammesso che qualcuno avesse voglia di discuterne o di metterlo in dubbio, era provato dal fatto che a soli 38 anni, era già riuscito a percorrere tutta la scala gerarchica dello studio, arrivando a un passo dal vertice.
Marini Arnaldo, nato in Lunigiana, da una stirpe di marmisti. Primo avvocato della famiglia. Primo Marini a lasciare casa per trasferirsi a Roma. Primo cittadino del paesino di Colonnata a occuparsi di transactional advisory. Roba complicata, la transactional advisory. «Poi una volta mi spiegherai bene cos’è che fai esattamente», gli diceva ogni Natale suo zio Luca che gli studi di Giurisprudenza li aveva tentati negli anni Novanta, ma poi aveva mollato, dopo aver vinto il concorso alla Tesoreria del Comune di Massa. Arnaldo, dopo anni e anni di tentativi, sorrideva e lo accontentava riducendo il suo mondo a una parola che, sapeva benissimo, poteva significare tutto e poteva significare niente: «Consulenza, zio. Faccio consulenza in materia d’affari. Compro e vendo aziende, quote di aziende, maggioranze, minoranze. Qualcuno dice che aiuto i ricchi a diventare più ricchi. Non so se sia sempre così, ma faccio il mio lavoro e lo faccio bene. Sai quanto mi hanno dato quest’anno di bonus?»
Il dipartimento in cui “operava” Arnaldo Marini (che, tra le altre cose, adorava usare il gergo medico per descrivere la rilevanza del suo lavoro) era il primo per fatturato nella sede italiana di Right & Fight. E questo, significava che quel dipartimento, ogni tre anni, poteva, anzi, doveva esprimere il managing partner della struttura. Il capo. L’uomo al comando. Alvise Saldutti, head of transactional advisory, guidava la sede italiana di Right & Fight dall’anno in cui la law firm aveva acquisito la sua boutique specializzata in diritto societario, gloriosa insegna fondata quasi sessant’anni prima dal professor Manfredi Saldutti, poeta e partigiano. Saldutti (Alvise, terzo in linea di successione nella dinastia dei Saldutti, giuristi d’impresa), era l’uomo che aveva cambiato la vita di Edgardo Marini. L’avvocato che gli aveva fatto da mentore. L’uomo che lo aveva portato a guadagnare il suo primo milione. Colui il quale l’aveva accompagnato, passo dopo passo, fino a quell’ultima svolta. Un ulteriore appuntamento con la storia. Il momento in cui il primo Marini avvocato sarebbe diventato anche il primo Marini managing partner di uno studio internazionale, nonché il più giovane socio gestore di sempre nella sede locale della law firm fondata a Sheffield nel 1873.
I giochi erano fatti. Non c’era nulla che, a quel punto, potesse andare storto.
Il programma per il giorno seguente prevedeva la riunione per la distribuzione dell’utile annuale, la nomina dei nuovi soci e l’elezione del nuovo managing partner. A seguire ci sarebbe stata una cena nel ristorante dell’albergo, appena insignito della seconda stella. E per chiudere la serata, uno spettacolo dello stand up comedian, Rutto. Un genio. Anche se Saldutti non lo conosceva. «Mai sentito!», aveva detto quando Marini gli aveva illustrato il programma. «Certo che non lo conosce, avvocato, perché lei è il passato. Mentre questo è il momento di pensare al futuro. Lo chieda ai giovani se sanno chi sia Rutto Righetti, e vedrà cosa le diranno…», avrebbe voluto ribattere. Ma si fece bastare la pioggia di whatsapp con cui i colleghi si erano complimentati per la scelta. «Grande Marini!», «Sei il nuovo che avanza!», «Non ne potevamo più delle serate free jazz», «Ruttoooo!!!!». Sarebbero stati loro, quell’anno, l’ago della bilancia nell’assise elettorale. Marini lo sapeva. Nei mesi che avevano preceduto l’appuntamento al Grand Hotel sul mare, si era mosso per compiacerli e carpirne il consenso. Aveva distribuito prebende e conferito mandati che avrebbero fatto salire di qualche decina percentuale i premi di risultato che avrebbero intascato prima di Natale: soldi necessari a comprare case, mantenere mogli, divertire amanti, e togliersi qualche sfizio più o meno legale.
Per avere la certezza dell’impresa, Marini si era attrezzato per superare la maggioranza assoluta dei consensi. Abundans cautela non nocet, gli aveva insegnato Saldutti. Nessun problema. Il comitato esecutivo dello studio aveva dato il via libera alla promozione di quattro nuovi soci e lui, col benestare del suo generale in comando, aveva sponsorizzato tre delle quattro nomine arrivate al traguardo. Tre autentici talenti. Tre donne che da quel momento in avanti avrebbero avuto un chiaro debito di riconoscenza nei suoi confronti. La sua assicurazione per l’assunzione all’empireo di Right & Fight Italia aveva il volto e i nomi di Sara Menichini, Asia Parboni e Giulia Carella Lattanzi. Tutte e tre nate e cresciute professionalmente in Right & Fight. Tutte e tre componenti del dipartimento di transactional advisory. Tutte e tre assunte da Saldutti su sua indicazione e accompagnate nel giro di dieci anni fino alla carica di counsel: anticamera dell’associazione.
Menichini era stata la più giovane managing associate dell’organizzazione, e negli ultimi tre anni aveva costantemente “sovraperformato” rispetto agli obiettivi di budget assegnati.
Parboni, oltre a essere una professionista «dotata di rarissima intelligenza giuridica», come amava ripetere Saldutti, era anche la nipote di Egisto Parboni, il signore della logistica, presidente di Confindustria Pavia, uno degli uomini più ricchi di tutta la Pianura Padana e grande amico del socio gestore uscente.
Lattanzi era la più giovane del gruppo, la più dotata, una che s’era fatta notare lavorando sodo e proponendo iniziative che negli anni avevano contribuito ad aumentare il cross selling tra le diverse aree di pratica e ad accrescere, come auspicato dall’avvocato Saldutti, la sensibilità Esg della struttura che, grazie al suo lavoro aveva conquistato la certificazione 125:2022 per la parità di genere.
Le tre nuove socie, il giorno seguente, avrebbero garantito almeno tre voti più del necessario al trionfo di Marini, delfino di Saldutti, erede al trono designato del suo feudo professionale, nuovo managing partner di Right & Slavery Italy per il triennio 2039-2041 e primo Marini sulla vetta del mercato dei servizi legali, nazionale e internazionale, nella storia della casata di marmisti carraresi.

Preso dall’euforia di quell’attesa, l’uomo decise di ripetere il rituale che ogni anno precedeva la giornata di lavori e svago prevista dal programma dell’incontro soci al Grand Hotel sul mare. La stanza 237 era una stanza per fumatori. E lui, una volta l’anno, solo una, fumava un sigaro per ricordarsi che sapore avesse il suo successo. Quel misto di caffè, torba e posacenere. Era l’odore degli uomini che contavano. Quelli che quando era bambino, la domenica, a Colonnata, percorrevano il corso indossando il cappello a falda e un cappotto grigio con il collo di pelliccia. Quelli che fumavano il toscano lasciando la scia al loro passaggio. Un profumo misto di tabacco e muschio bianco. Tra i dettagli di quella esperienza immersiva nella sua idea di lusso, Edgardo Marini pretendeva ogni anno che l’arredo olfattivo della stanza 237 fosse proprio la famosa aria di muschio bianco realizzata solo per il Grand Hotel sul mare della fragrance designer CheriBas. Distratto dall’eccitazione per l’attesa del giorno seguente, vigilia del suo ennesimo natale professionale, l’avvocato Arnaldo Marini non s’era accorto che la direzione dell’albergo aveva clamorosamente mancato di rispettare la sua volontà riguardo all’arredo olfattivo della stanza 237, che poi sarebbe dovuto essere l’arredo olfattivo di tutte le stanze in cui erano stati dimorati i soci de facto e in pectore di Right & Fight Llp. L’essenza del lusso stava nella cura per i dettagli. E questo, per Arnaldo Marini, partner del dipartimento transactional advisory, prossimo socio gestore dello studio in Italia e organizzatore dell’evento che anche quell’anno veniva ospitato dal Grand Hotel sul mare, era un dettaglio fondamentale. Erano sei anni che le sue richieste erano sempre le stesse. Bagaglio sistemato, abito stirato e aria di muschio bianco ovunque. La formula chimica dell’idea di lusso secondo Arnaldo Marini constava di questi tre semplici elementi. Non era tollerabile una mancanza del genere. Non era ammissibile. Bisognava rimediare. E bisognava farlo subito. Chiamò il nove.
«Ci dispiace signor Marini, abbiamo ricevuto indicazioni in tal senso. Quest’anno, al posto del muschio bianco c’è stata chiesta l’aria di vetiver di Rosciani. Fragranza prodotta in loco. Un eccellente profumo a chilometro zero. È stata fatta una scelta sostenibile. Ma se lei desidera…».
E da chi? Cos’era successo? Chi s’era intromesso?
«Non so e non voglio sapere. Ma almeno per la mia stanza esigo, per favore, l’aria di muschio bianco di Cheri Bas. È possibile?».
«Certo che è possibile. Provvediamo subito. Ci scusi ancora…».
«Avvocato».
«Come dice?»
«Ci scusi ancora, Avvocato! Per favore, non prendiamoci delle libertà da pensione Miramare».
«Assolutamente, Avvocato. Provvediamo subito».
Bastarono meno di venti minuti. Per farsi perdonare l’incidente, la direzione del Grand Hotel sul mare, offrì all’avvocato Marini un aperitivo a bordo piscina affinché si potesse rilassare nell’attesa che la suite 237 venisse rigovernata con la corretta fragranza e tornasse pronta ad accogliere il suo ospite più fedele, che ci mise poco a dimenticare quella piccola caduta di stile della struttura, consolato dalle bolle della coppa di Grand Siècle che gli fu servita assieme a delle ottime mandorle salate e a un piattino di biscotti al burro con gocce di cioccolato e pepe di Sichuan. La considerò una cena perfetta.
Arnaldo Marini andò a letto esausto per l’eccitazione e dormì come un bambino. Tra i cuscini foderati di fiandra, i suoi sogni galleggiarono spumosi nell’aria di muschio bianco e lui si vide come una sposa nivea percorrere la navata centrale della cattedrale di Right & Fight Llp, alla fine della quale Saldutti se ne stava ritto nel suo gessato grigio, pronto a sollevare il velo della sua lunga attesa e a benedirlo con un bacio sulla fronte, nuovo socio gestore dello studio, mentre un coro di soci inglesi intonava una melodia celestiale.
Il mattino seguente, Arnaldo Marini si svegliò di buon umore. Fece colazione con un cappuccino di soia e una brioche farcita con una confettura biologica di melagrana. Poi raggiunse il resto dei soci nella sala Napoleone del Grand Hotel sul mare, per dare avvio ai lavori. Tutto si svolse come previsto. L’avvocato guardò soddisfatto Saldutti quando il voto dell’assise suggellò ufficialmente la promozione di Menichini, Parboni e Lattanzi, nuove socie di Right & Fight Italia. La sua maggioranza qualificata era blindata.
C’era stato un tempo in cui bastava far piovere denaro per stabilire chi avesse diritto a comandare in uno studio legale. Ma non era più il momento. Menichini, Parboni e Lattanzi sarebbero state il suo trio d’attacco nella partita per l’elezione del managing partner erede dell’avvocato Saldutti in cui era chiaro che Edgardo Marini non aveva concorrenti. Nessuno che fosse venuto allo scoperto, quantomeno.
La democrazia capitaria era un vezzo che le law firm internazionali avevano imposto ai loro adepti in giro per il mondo, costringendoli a far politica per raccogliere consensi interni e conquistare così un potere gentile. La forma andava sempre salvaguardata. E cosa c’era di più gentile di una partnership composta da una quota del venti percento di toghe rosa pronte a sostenere il tanto atteso passaggio generazionale?
Dopo il coffee break si sarebbe finalmente votato. Marini pensò che il massimo sarebbe stato passare per acclamazione. Altro che urne e spoglio delle schede. Solo un lungo e fragoroso applauso che Saldutti avrebbe cercato di chetare, col suo solito garbo, sorridendo e muovendo su e giù le mani rugose coperte di quella soffice peluria bianca da uomo del Novecento.
«Bravo Marini. Bravissimo». «Grazie Avvocato. Devo tutto a lei!» «Devi tutto a te stesso. Al tuo impegno…».
Quel quarto d’ora d’attesa trascorse lentissimo: il caffè più lungo della vita di Arnaldo Marini. E quando finalmente tutto il gruppo di partner fu rientrato in sala Napoleone per riprendere i lavori, l’avvocato ebbe come una piacevole sensazione di déjà vu. Riprese posto con la spensieratezza degli studenti la mattina dell’ultimo giorno di scuola. Ma prima che il voto venisse aperto dalle dichiarazioni individuali, una mano si levò nella stanza, non per applaudire bensì per chiedere la parola.
Quattro dita affusolate, con le unghie finemente dipinte di verde acido e uno smeraldo di famiglia a scintillare sull’anulare destro, richiamarono l’attenzione per stigmatizzare la scenata del giorno prima del managing partner in pectore. Il collega Marini e il suo capriccio al muschio bianco. Tutti avevano saputo. E la cosa era stata considerata imbarazzante, nonché meritevole del massimo biasimo.
A prendere la parola fu la socia novella, Giulia Carella Lattanzi, responsabile del gruppo di lavoro Esg e focus leader del focus team Sustainability & Well being.

La sua voce riempì la sala Napoleone con tono grave di sconcerto. L’avvocato Marini, evidentemente, non aveva letto la newsletter curata dal gruppo di lavoro Esg e inoltrata puntualmente a tutti i partecipanti alla riunione di quel giorno, nella magnifica cornice del Grand Hotel sul mare, una settimana prima della partenza.
Il documento, in maniera chiara ed eccezionalmente concisa (proprio per venire in contro alle esigenze di tempo dei partner dello studio), spiegava la decisione di rivedere le scelte passate in materia di arredo olfattivo e promuovere un cambiamento consapevole e sostenibile. La decisione di profumare le stanze al vetiver chilometro zero era stata presa in ossequio all’impegno dello studio per l’ambiente. «Chi lo dice che uno studio legale Esg compliant può far poco per la E?». La E di environment. L’argomento, di solito, veniva liquidato con una battuta. Invece, Giulia Carella Lattanzi, nel suo intervento dal registro crescente, spiegò che la questione andava presa tremendamente sul serio: non solo in ossequio agli impegni assunti dalla struttura in occasione della presentazione dell’ultimo bilancio di sostenibilità, ma anche a tutela dell’immagine e della reputazione pubblica della law firm che sulla questione del proprio carbon footprint ci aveva messo la faccia a livello mondiale.
Chi era davvero Giulia Carella Lattanzi? Possibile si stesse rivelando la peggiore delle Bovary?
Il futuro di Right & Fight Llp, 166 anni di storia dalla fondazione a Sheffield, doveva essere consapevole e sostenibile. E quindi, disse stentorea, non poteva assolutamente odorare di muschio bianco. Ma in che senso? Arnaldo Marini rimase senza parole. E il suo silenzio si tinse delle tonalità dell’imbarazzo quando quella donna, presunta alleata, e allieva ingrata, lo incalzò chiedendo se sapesse con cosa si produceva il muschio bianco? Se, secondo lui, si trattasse di un’essenza vegetale o animale?
La retorica scontata del quesito suggeriva la risposta giusta. Ma quello non era il punto. Marini, l’avvocato Arnaldo Marini, anzi, l’Avvocato Arnaldo Marini con la A maiuscola, la deferenza del personale del Grand Hotel sul mare e il nome inscritto nel marmo del pantheon degli ospiti più illustri di sempre di quel posto magnifico affacciato sul Golfo, non aveva alcuna intenzione di prestarsi alla sceneggiata che tutti sembravano seguire come ipnotizzati dalle parole della Lattanzi. Quel discorso fluiva lavico e apparentemente a braccio. Stava improvvisando o era tutto calcolato?
Perso in quel vorticare di argomentazioni, Marini smise di ascoltare. Il colpo l’aveva sentito. Ma adesso doveva cercare aiuto. I suoi occhi cominciarono a percorrere la sala, sedia dopo sedia, nella speranza di agganciare uno sguardo solidale. Gli occhi di qualcuno che gli dicessero «Ma questa cosa cazzo vuole? Ma di che parla? Stiamo davvero facendo una tragedia per l’aria di muschio bianco?». Bussava lo sguardo di Marini. Ma nessuno apriva. Erano tutti presi dall’arringa di Lattanzi. Incluso il suo maestro, l’avvocato Saldutti. Possibile che stesse tollerando quell’uscita così inopportuna nel giorno della sua incoronazione? Non era questo il programma. Non era a questo che si erano preparati. «Avvocato, almeno lei, mi guardi. Mi faccia capire che ho il permesso di intervenire per bloccare questa donna che sta continuando a parlare e non so più cosa sta ancora dicendo…» Ma Saldutti era come tutti gli altri. Rapito. Anzi, annuiva. Lui non era solo attento a quello che Lattanzi aveva da dire. Lui condivideva.
No, no, no. Non poteva essere. Non stava succedendo veramente. Ma cosa si era messa in testa Lattanzi. Una che era entrata in studio solo perché aveva fatto gli occhi dolci al suo capo durante il colloquio di selezione. Una che aveva accettato di sentirsi dire «L’ho scelta non perché fosse la più brava tra i candidati, ma perché era quella con il sorriso più bello». Una che, ogni volta che quel vecchio rimbambito di Saldutti la presentava a un cliente dicendo «io sono la mente, e lei la coscia», rideva di quel finto imbarazzo tipico di chi non capisce che quello è uno scherzo che nasconde solo un’enorme verità. Saldutti l’aveva presa in squadra perché era stato affascinato. Il suo piglio ribelle, il caschetto nero, mai un filo di trucco, le collanone etniche del mercatino artigianale, la montatura aviator per le lenti da vista, le gonnone finto hippie e le serate al circolo della vela, lo stesso frequentato dalla famiglia Saldutti, dove era madrina del club del libro e di qualunque iniziativa in favore e a sostegno della causa più giusta e di moda in quel momento.
Giulia Carella Lattanzi sapeva tutto sulle carceri minorili, sui conflitti che dilaniavano l’Africa Centrale, la ricerca contro il cancro, i diritti dei migranti, le api a rischio estinzione ed era in grado di affibbiare un giudizio etico a qualunque cosa: pensieri, lavori, cibi, vestiti e chiaramente profumi.
«Ma perché, con che cazzo si fa ‘sto muschio bianco?» Marini sapeva che la risposta era a portata di tablet, per cui cominciò a battere sullo schermo del suo dispositivo elettronico alla ricerca di argomenti utili a porre fine allo sproloquio di Lattanzi che parlava, parlava, parlava, mostrando indifferenza all’attenzione che gli altri le rivolgevano compenetrati dalla questione odorosa che impediva il prosieguo dei lavori. Lei si rivolgeva a Edgardo Marini. Era lui che doveva capire. Era lui che doveva ammettere l’errore. La sua giovinezza stantia, il suo rampantismo provinciale. Anche lui era un uomo del passato. Uno che non sapeva che il muschio bianco non ha nulla a che vedere col muschio dei boschi e dei presepi natalizi. Si tratta, invece, di un’essenza derivata dalle ghiandole odorifere di un piccolo cervo: il cervo muschiato (Moschus Moschiferus) originario dell’Asia centrale, che durante il periodo dell’accoppiamento marca il territorio seminando piccole palline ricolme di olio e che l’industria profumiera caccia senza pietà per produrre quest’essenza che dovrebbe essere bandita e resa illegale. «Ma qui c’è scritto che oggi il profumo al muschio bianco viene prodotto sinteticamente…», provò a replicare Marini dilaniato da quella raffica di argomenti volti a dimostrare la sua insipienza e inadeguatezza. Quelle parole caddero nel vuoto, mentre Lattanzi concluse il suo intervento fiume decantando le doti miracolose del Chrysopogon zizanioides, una pianta miracolosa, nota ai più col nome di vetiver, un vegetale che stava diventando il simbolo della rivoluzione ecologica.
Gli applausi che accompagnarono la fine dell’intervento di Giulia Carella Lattanzi seppellirono il tentativo di contro argomentare del povero Marini che sprofondò nella sedia di fianco al tavolo di presidenza sotto lo sguardo contrito di Parboni e Menichini. Loro furono le uniche a sembrargli sorprese. Le sole a non spellarsi le mani e a dare l’idea di non sapere cosa stesse accadendo.
L’avvocato Saldutti si mise in piedi e tanto bastò a riportare ordine e silenzio nella sala Napoleone del Grand Hotel sul mare. Prima di aprire il voto per l’elezione del nuovo managing partner, il vecchio avvocato si disse colpito da tanta consapevolezza e lucidità di pensiero.
Disse che questo episodio doveva fare riflettere tutti. Disse che era dalle piccole cose, dai particolari, che si poteva distinguere la sincerità delle intenzioni di uno studio legale che voleva fare la differenza nel mercato e nella società.
Disse che era il momento di dare un segnale forte. E che Right & Fight Italia meritava una donna al comando. L’ottanta percento dei presenti si rivelò d’accordo col socio anziano che alla fine dello spoglio delle schede si compiacque della scelta. Invitò i presenti a «sostenere l’Avvocato Lattanzi nel gravoso compito che l’aspetta in questi anni così sfidanti per la professione e per il mondo in cui noi tutti viviamo».
Poi, bevve un sorso d’acqua di fonte e si rimise a sedere di fianco al cumulo di ceneri fumanti di Arnaldo Marini, suo eterno delfino, e mancato successore.