L’avvocatura e il paradigma Trump
Quando lo scorso sei novembre ci siamo svegliati scoprendo che per i prossimi quattro anni gli Usa saranno guidati, ancora una volta, da Donald Trump, nessuno si è potuto dire sorpreso. Era una vittoria annunciata, nonostante la defenestrazione elettorale del 2020 sembrasse aver messo una pietra sopra le velleità politiche del “colorato” uomo d’affari americano.
Viviamo tempi così. O forse siamo così da sempre. Amiamo affidare le nostre sorti alle doti e al talento di pochi che, in qualche modo, si fanno avanti per pensare a tutto al posto nostro, mentre noi continuiamo a occuparci di orticelli e botteghe che se le cose vanno bene, alla fine, chi se ne frega.
Trump torna alla Casa Bianca. A 78 anni. È il più anziano presidente eletto della storia Usa (da noi, sarebbe ancora un ragazzino). E questo rimestare nel già visto, questo selezionare sempre e solo tra le poche solite persone, anche in un Paese che conta 335 milioni di abitanti, conferma non solo la pigrizia democratica delle società capitalistiche, ma anche l’incapacità di ogni leadership di staccarsi dal piedistallo su cui è riuscita a trovare uno strapuntino.
Per venire alle questioni di cui ci occupiamo noi, vale a dire avvocati e professionisti nel mondo degli affari, possiamo dire che le cose vanno in modo molto simile, che le associazioni professionali di casa nostra (e non solo) sembrano replicare in vitro il paradigma Trump. Le leadership faticano a rinnovarsi in quelle monarchie parlamentari che sono gli studi legali d’affari. Che si tratti di piccole realtà ultra-padronali, o grandi organizzazioni con decine se non addirittura centinaia di partner riuniti in forma associata, il problema (a un certo punto) diventa sempre lo stesso: capire cosa accadrà “dopo”, quando bisognerà, per una ragione qualsiasi, pensare alla successione.
«Ma perché, lì chi c’è?» Questa è la domanda che mi sento fare più spesso quando, parlando con i managing partner di quello che accade in casa dei loro concorrenti, mi permetto di far notare che di materiale umano e professionale su cui lavorare o a cui dare spazio per impostare il futuro dell’organizzazione ce ne sarebbe parecchio.
Ora, quella domanda non è quasi mai solo retorica. È vero che i leader non hanno idea di “chi ci sia” nelle retroguardie degli studi concorrenti, anche perché spesso questi stessi professionisti non hanno la minima idea di chi ci sia nelle loro. La potremmo chiamare sindrome di Pompadur: la marchesa amante di Luigi XV, considerata l’ispiratrice di quell’après nous, le déluge.
La capacità di costruire futuro è anzitutto capacità di visione. E la capacità di visione si riduce progressivamente e in maniera direttamente proporzionale all’andare dell’età e all’accumularsi di potere e privilegi. Nessuna leadership è pronta a dimettersi da sé stessa una volta che si è cristallizzata. La storia non fa che ripetercelo.
Le governance degli studi andrebbero, periodicamente, riviste per non restare intrappolate in una fortezza di buone intenzioni.
Sì, ma come? Non ci sono ricette. O meglio, noi non le abbiamo. Anche se forse, il ricorso a una quota di indipendenti e manager di professione, separata e responsabile rispetto al resto della partnership, potrebbe essere il punto di partenza per la costruzione di un’alternativa all’autogestione che fino a oggi ha caratterizzato l’ordine costituito in queste strutture. E una delle funzioni più preziose che tali dirigenti (o partner) laici dovrebbero esercitare è proprio quella del monitoraggio dei talenti. Dei propri e di quelli altrui. Gli studi legali si prendono a gomitate per un praticante avvocato e poi si dimenticano di chi potrebbe assolvere al compito di guidarli in futuro, solo perché, dopo qualche anno, non riescono più a vederlo: questo sì che è un vero paradosso. Qualcosa nei loro modelli bollinati, alla lunga, non va. Anche le monarchie parlamentari hanno bisogno di essere illuminate.