Avvocati e lockstep: requiem per un’utopia
Quando ho cominciato a occuparmi di avvocati d’affari (talmente tanti anni fa, che i miei capelli erano ancora tutti neri) ricordo che una delle cose che mi colpì di più fu la scoperta del lockstep. Semplificando al massimo, gli studi legali internazionali con un modello organizzativo basato su questo fantomatico criterio, erano (sono) studi in cui le retribuzioni crescevano essenzialmente con l’aumentare dell’anzianità dei professionisti. Della seniority, per usare un termine meno cruento. Era un percorso predeterminato che vedeva aumentare i guadagni in base al (teorico) progresso del contributo che ogni singolo professionista sarebbe riuscito a dare allo studio, man mano che cresceva in età, saggezza e capacità di incidere.
Per i sostenitori di questo sistema, la retribuzione “a scatti” promuoveva la lealtà, e scoraggiava la concorrenza all’interno dell’associazione professionale. Era la squadra a vincere. In un Paese dominato dall’individualismo forense, la cosa non poteva che sembrare rivoluzionaria. I risultati del collettivo erano quelli di cui tutti, alla fine, avrebbero beneficiato (in gradi differenti, legati alla seniority, ovvero alla posizione occupata nella scala dei punti dello studio). Per cui, sì al cross selling, sì alla condivisione dei clienti, sì al coinvolgimento dei colleghi sui propri mandati. E l’origination? Nei casi più estremi, quelli dove si applicava il lockstep fino alle sue più radicali conseguenze, non si sapeva neanche cosa fosse.
Insomma, posto su un altare etico se non addirittura morale, il lockstep in molte realtà aveva realizzato una vera e propria Utopia legale dove l’operato dei soci e di ogni altro componente della struttura non era messo sotto scacco dalla legge delle prestazioni. Contava la qualità non la quantità. E tutta la ricchezza derivata da questa attività non era altro che la conseguenza del lavoro svolto dagli avvocati: non il suo fine.
Il prezzo di questo sogno? Si guadagnava tanto, tantissimo, ma meno di quello che si sarebbe pottuto se ognuno avesse portato a casa compensi direttamente proporzionali a quello che aveva “cacciato”.
Questa è stata la crepa da cui, negli ultimi tempi, sembra essere partito il collasso del sistema. Man mano che i business lawyer hanno cominciato a misurare il proprio successo parametrandolo a quello dei banchieri, i detrattori sono cresciuti. Il lockstep in purezza è diventato più raro di una bottiglia di Kolliniatiko del Peloponneso e gli studi che ad esso e al suo modello culturale avevano cercato di restare avvinghiati, si sono trovati costretti a immaginare versioni modificate, riviste e corrette di quel modello che, però, alla lunga nulla ha potuto contro l’affermarsi di nuovi paradigmi fondati sulla esasperazione del merito e la massimizzazione delle performance dei singoli. Tanto che persino i baluardi internazionali del lockstep, leggende legali come Cravath, Davis Polk o Claeary Gottlieb, negli ultimi anni hanno deciso di chiudere quella pagina della loro storia, lasciando solo poche altre grandi realtà (come Wachtell o Slaughter and May) a resistere in nome della sua perpetuazione.
L’apice di questa svolta culturale è coinciso con la deflagrazione della guerra dei talenti avviata da alcuni grossi studi internazionali che hanno trascinato nel valzer dei lateral hire, soci (un tempo inarrivabili, immuni a qualsiasi canto di sirena) provenienti da strutture vincolate dal lockstep. Il settore è stato gettato nello scompiglio da queste intese raggiunte attaccando il punto debole dei concorrenti e chiuse, ovviamente, a suon di milioni. Si pensi alle pagine e pagine che nel 2018 sono state dedicate non solo dalle testate di settore ma anche dai colossi dell’informazione internazionale come il New York Times al lateral hire di Sandra Goldstein passata da Cravath a Kirkland & Ellis con un “ingaggio” da 11 milioni di dollari all’anno, come direbbero i cronisti sportivi. Poi, i casi e i nomi entrati in questa scia di cambi di poltrone si sono moltiplicati esponenzialmente inducendo sempre più organizzazioni a rivedere i principi su cui avevano fondato i loro patti associativi. Che poi ha voluto dire, rivedere la propria visione del mondo e la narrazione condivisa tra soci per decenni. Mi hanno raccontato di riunioni con partner in lacrime, sconvolti come bambini messi di fronte all’inesistenza di Santa Claus. Reazioni estreme, ma comprensibili, di chi improvvisamente ha capito che il proprio lavoro non può valere oro solo perché partorito sotto il tetto di una grande istituzione forense, ma che serve dimostrare sul campo la propria rilevanza, in qualità di giurista e come componente attivo di una struttura che, comunque, per reggersi ha bisogno di macinare ricavi e soprattutto utili per l’organizzazione.
Ma davvero il legal business oggi, e soprattutto nel prossimo futuro, è destinato a ridursi solo a una questione di soldi?
Quando Yahoo Finance ha affrontato l’elefante nella stanza con l’avvocata Goldstein lei ha (prevedibilmente) risposto di no. E come molti, in questi casi, ha parlato di progetto, investimenti e visione: è stata convinta dalla prospettiva che il nuovo studio le offriva e che l’ha convinta sul piano professionale. La verità, forse, sta nel mezzo. Ma come molti sostengono, il denaro è un collante che esaurisce molto rapidamente il suo effetto. Al momento, soprattutto nelle grandi piazze finanziarie (dove il private equity ha davvero influito tanto sul cambio dei giochi) la battaglia per i talenti sembra volgere a favore di chi non ha remore a pagare più di un ceo i propri (o gli altrui) avvocati da cento milioni di dollari. Una domanda, però, rimane alla fine della golden age del lockstep: fino a quando, tutto ciò rimarrà sostenibile?
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