Il tribunale di Josef K. e il labirinto della legge
I numeri dicono molto ma non dicono tutto. Avete presente le statistiche? Quelle sullo stato della giustizia e della sua efficienza? Migliora. Peggiora. Ci sono termometri, barometri, indicatori e tutti, alla fine si traducono in cifre. “Numeri alla mano”, si scrive in questi casi, «a fronte di 337.740 procedimenti di Tribunale arretrati nell’anno 2019, al primo semestre 2023 ne restano solo 271.137». Questo, per esempio, è quello che si legge nella Relazione sul monitoraggio statistico degli indicatori PNRR nel primo semestre del 2023 pubblicata dal ministero della Giustizia alla fine dello scorso anno.
I numeri dicono molto, ma non dicono tutto. Perché se ci fermiamo un attimo, se ci pensiamo bene, dietro ogni singola unità che va a comporre la cifra più aggiornata, quella che magari attesta un “miglioramento della situazione” ci sono persone che nella situazione sono ancora invischiate, spesso, senza sapere per quanto.
È una condizione che non si augura a nessuno, l’attesa del giudizio. Ed è una condizione che non è semplice da raccontare. Non tanto sotto il profilo della cronaca dei fatti cronologicamente scandita, quanto piuttosto dal punto di vista emotivo e psicologico dell’imprigionamento nel meccanismo della macchina che muove i suoi ingranaggi secondo regole che, dalla teoria alla pratica, mutano acquisendo i tratti enigmatici del “caso per caso”, sfociando talvolta nella dimensione dell’assurdo.
Questa dimensione della giustizia degli uomini non ha mai avuto, nella storia della letteratura, una rappresentazione più esatta e angosciante di quella che le ha riservato Franz Kafka nelle scene de Il Processo, opera scritta tra il 1914 e il 1915 e pubblicata postuma (nonché, pare, incompleta) nel 1926.
La storia dovrebbe essere nota. Ma, a beneficio dei pochi che non dovessero conoscerla, possiamo ricordare che si tratta della vicenda di Josef K., procuratore di banca, che una mattina viene tratto in arresto per via di accuse che mai gli verranno rivelate. L’incipit del romanzo è leggendario: “Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., poiché un mattino, senza che avesse fatto nulla di male, egli fu arrestato”.
Ma a rendere la dimensione dell’incubo in cui, poco alla volta, Josef K. si troverà a sprofondare sono i luoghi in cui tutto si svolge e in particolare il tribunale che di bellissimo, nell’accezione che vogliamo, ha soltanto la capacità di trasmettere al lettore quel senso di angoscia crescente che avvolgerà il protagonista della storia fino al suo epilogo, dove la liberazione dalla melassa giudiziaria arriverà con la morte.

All’inizio, per Josef K., quello che sta succedendo non può che essere uno scherzo, magari dei suoi colleghi, del resto il giorno in cui viene arrestato coincide con quello del suo trentesimo compleanno. Non solo non è stato messo a conoscenza delle accuse che lo riguardano, ma lui stesso non riesce a trovare alcuna colpa tra le sue azioni recenti o passate: sente di avere la coscienza pulita e quindi, anche con una certa tracotanza, ostenta la sua convinzione che si debba trattare di un errore.
Le cose cambiano quando il protagonista della storia riceve la convocazione a presentarsi per la prima udienza in tribunale. Conosce il giorno: domenica (perché, comunque, l’imputato è stato lasciato in libertà, e durante la settimana lavora). Conosce l’indirizzo: Juliusstrasse (una strada sperduta della periferia). Ma quello che non conosce, o meglio, che non immagina prima di trovarselo davanti è l’aspetto che quell’edificio può avere. Si tratta, di fatto, di una casa. Una specie di enorme alveare. Una struttura “singolarmente estesa” a cui si accede passando per un portone alto e largo, “fatto evidentemente per i carri”. Un ingresso così che conduce all’interno di una corte da cui si accede ai diversi piani e blocchi in cui è suddiviso l’edificio che paiono cubicoli di un caseggiato popolare. Una donna, che sta lavando dei panni, indica con la mano che gronda acqua saponata, la porta della camera che Josef K. sta cercando.
Orson Wells, dopo aver girato Quarto potere, L’orgoglio degli Amberson, Lo straniero, La signora di Shanghai, Macbeth, Otello, Rapporto confidenziale, e L’infernale Quinlan, nel 1962 realizza la sua versione del testo kafkiano e proprio sullo spazio attorno al povero Josek K. (che nel film ha il volto di Anthony Perkins, reso immortale da Psyco di Alfred Hitchcock) costruisce la rappresentazione della vicenda facendo ampio ricorso all’uso del grandangolo per accentuare il senso d’oppressione spaziale.
La “camera”, l’aula del tribunale dovremmo dire, appare piena di persone strette in un pigia pigia scompagnato. La stanza ha due finestre “di media grandezza, ed è cinta da una galleria schiacciata dal soffitto” sempre piena di persone costrette a stare chine perché le loro teste urtano contro il muro. C’è perfino qualcuno che si è portato un cuscino per proteggersi dalle botte. L’arredo olfattivo di quell’ambiente viene chiamato chiaramente “tanfo”. Mentre la postazione del convenuto si trova in fondo a un passaggio stretto dove è sistemata una pedana con sopra un tavolo piccolo e messo di traverso. L’ambiente è semioscuro e polveroso. L’unico che, forse, sta comodo, o quantomeno ha un po’ di spazio a disposizione, è il giudice che siede in poltrona. Con lui, Josef K. ha uno scontro verbale durissimo. “Quello che è successo a me … è indicativo di un modo di procedere che viene adottato ai danni di molti altri. Io qui difendo loro, non me stesso”.
Josef K.èsicuro di non avere nulla da temere, crede nello stato di diritto, nelle leggi che governano e ordinano il vivere civile, ed è certo di poter biasimare pubblicamente il tribunale e i suoi funzionari per il pessimo modo in cui lavorano senza che ciò abbia alcuna conseguenza. Non sa, il povero Josef K. che quella, oltre a essere la prima, sarà anche l’ultima volta in cui avrà un contatto diretto con i suoi giudici.
La seconda volta che il bancario torna sul posto infilando senza esitazioni scale e corridoi fino alla camera dove si trova l’aula del tribunale, scopre un luogo diverso, una sala vuota con la pedana e il tavolo su cui giace un codice ridotto a brandelli. Allora prosegue l’esplorazione del posto accompagnato dall’usciere che lo conduce alle segreterie. Si passa per una scaletta di legno che sembra portare a un solaio. Le segreterie del tribunale sono in una soffitta all’interno di una casa? “Non era un alloggiamento che ispirasse molto rispetto… una simile degradazione del tribunale era umiliante”. Le comunicazioni tra un ufficio e l’altro vengono gridate dai commessi dalle fessure delle porte. L’ingresso alle segreterie si trova dietro una porta che nasconde uno scalino su cui è facile inciampare (“Del pubblico a questi non gliene importa proprio niente”). Josef K. si trova davanti a un lungo corridoio, con porte “rozzamente squadrate”che portano ai singoli vani del solaio. Non ci sono lucernari ma l’oscurità non è totale: un po’ di luce penetra dal soffitto in legno. Quel giro comincia a far perdere l’orientamento a Josef K. Vorrebbe uscire, andare via. Ma da solo non riesce.
Passano i giorni e il pensiero del processo dinanzi a quel tribunale non ordinario lo assilla. È un’ossessione. Vede un avvocato. E poi scopre che tra le persone che potrebbero aiutarlo c’è un pittore, un certo Titorelli. La terza volta che Josef K. torna in tribunale, anche se non ne ha subito contezza, è quella in cui va a trovare l’artista che, neanche a dirlo sta in una soffitta sudicia, in cima a una scala di legno in un condominio simile a quello di Juliusstrasse, ma se possibile ancora più misero e buio. All’esterno il palazzo ha un muro sfondato da cui tracima un “liquido schifoso, giallo, fumante, davanti a cui i ratti scappano”per rifugiarsi nella fognatura vicina. La stanza-studio del pittore “misura poco più di due lunghi passi, sia per lungo che per traverso. Tutto, pavimento, pareti e soffitto, è di legno, e fra le tavole si vedono fessure. Addossato al muro c’è il letto. E in mezzo alla camera, su un cavalletto, c’è un quadro coperto”. C’è una sola finestra che non si può aprire e da cui non si vede nulla a causa della nebbia. La tela nascosta è il quadro di un giudice. Titorelli è un pittore giudiziario. La figura rappresenta anche la Giustizia e la Vittoria riunite insieme. Josef K. nota un’incongruenza: la benda sugli occhi, la bilancia e le ali ai piedi: “Sta correndo? Non è un’unione felice. La Giustizia bisogna che stia ferma se no la bilancia traballa e non si può dare una sentenza giusta”. Ma il pittore si giustifica dicendo che lui obbedisce alle indicazioni del suo committente. Anche qui, dopo un po’, al povero protagonista comincia a mancare l’aria. Chiede di andare. Prende la porta a muro che sta dietro il letto e sbuca sulle segreterie del tribunale: ce ne sono in tutti i solai. “K. non è tanto spaventato di aver trovato segreterie anche là, quanto di se stesso, della sua ignoranza delle questioni legali”.
Anche l’ultima volta che Josef K. entra nella cittadella giudiziaria rappresentata dal suo autore lo fa senza accorgersene. È andato a visitare il duomo della città che gli si presenta totalmente vuoto. Incontra un uomo che si rivela poi il cappellano delle carceri che gli dice: “appartengo al tribunale”. Con lui, il protagonista avrà un’ultima lunga discussione. L’ambiente intorno diventa sempre più buio. Ancora una volta K non capisce più dove si trova. La parabola che il prelato gli racconta sembra un’allegoria della sua vicenda. Quello che dicono e fanno gli amministratori della Legge “non si è costretti a tenerlo tutto per vero, si è solo costretti a tenerlo per necessario”. K. prende quella spiegazione e conclude che alla fine è solo una menzogna ciò che ordina l’universo. Perciò chiede al cappellano delle carceri cosa voglia il tribunale da lui. “Il tribunale non vuole niente da te. Ti accetta quando vieni e ti lascia andare quando vai”.
Finisco di scrivere questo pezzo sui luoghi del Processo un sabato mattina di fine gennaio. Fuori c’è nebbia. E per quelle strane allitterazioni del caso, mentre mi ritrovo a leggere il quotidiano, la mia attenzione viene catturata da un titolo. “Trentatré anni da incubo” Assolto dopo la condanna all’ergastolo per errore. Non è una storia inventata, ma la vicenda che ha riguardato il signor B.Z. che, dopo l’ennesimo processo, torna alla vita … dopo essere rimasto in carcere, da innocente, per tre decenni.
I numeri dicono molto ma non dicono tutto.
QUESTO ARTICOLO APPARE NELLA PRIMA MONOGRAFIA DI MAG. CLICCA QUI E SCARICA LA TUA COPIA