Se Esg fa rima con moda

di giuseppe salemme

Il 15 settembre scorso Yvon Chouinard, fondatore dell’azienda di abbigliamento tecnico Patagonia, annunciava tramite una lettera aperta pubblicata sul sito ufficiale dell’azienda, la cessione del 98% della società a un’associazione no profit dedicata a combattere la crisi ambientale e a salvaguardare l’ecosistema; il restante 2% del capitale (costituito da tutte le azioni con diritto di voto), veniva invece trasferito ad un trust creato appositamente con lo scopo di “proteggere lo scopo e i valori dell’azienda”. Il titolo della lettera era emblematico: “Il nostro unico azionista ora è il pianeta”.

Si tratta di una scelta radicale, se non addirittura estrema, e di fatto senza precedenti, anche per un’azienda che si era sempre detta “in business per salvare il pianeta”. Ma è anche un’azione emblematica del tempo che viviamo, e indice di una coscienza ambientale che cresce e matura sempre di più nella società. Una coscienza che tuttavia ha urgente bisogno di farsi strada nel mercato, soprattutto in un settore come quello della moda che, è stato calcolato, entro il 2050 potrebbe essere responsabile di circa un quarto delle emissioni di co2 del pianeta.

«Quello di Patagonia è un esempio virtuoso e un modello da seguire. Ma se parliamo in generale del settore fashion e della filiera che c’è dietro, un modus operandi sostenibile genericamente utilizzato ancora non c’è» spiegano gli avvocati Luigi Fontanesi e Camilla Di Fonzo, rispettivamente partner e associate della practice IP dello studio Greenberg Traurig Santa Maria. Lo studio, in particolare, è parte del comitato scientifico del Venice Sustainable Fashion Forum 2022. «Da quello che possiamo vedere è un impegno preso seriamente da tutti i vari soggetti attivi nel settore: brand, marketplace, fornitori – spiega Fontanesi. – Ormai quasi tutti si sono dotati di sustainability manager di fama e capacità, e ce ne accorgiamo ogni volta che dialoghiamo con le aziende nostre clienti: l’asticella è sempre più in alto». Rendere però sostenibile una filiera estesa e complessa come quella della moda è una sfida in salita. E questo in parte perché manca una definizione unitaria e comune di cosa è sostenibile e cosa no. «Attualmente il settore soffre soprattutto la mancanza di omogeneità delle normative e di coerenza degli standard di sostenibilità da adottare – spiega Di Fonzo. – Studiando la situazione attuale ci siamo resi conto che c’è molta confusione: ci sono tantissime certificazioni di sostenibilità di cui i brand si dotano, ma non c’è coerenza. I vari standard si sovrappongono, ma hanno misurazioni diverse e punteggi diversi. E la situazione è tale per cui…

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nicola.dimolfetta@lcpublishinggroup.it

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