AVVOCATI IN CDA, UNA LEZIONE SENZA EREDE
Avvocati in cda. La corsa continua. Chiusa l’annuale stagione delle assemblee per l’approvazione dei bilanci, ci si trova a fare la conta di quanti siano gli avvocati entrati per la prima volta o confermati all’interno dei consigli d’amministrazione di società quotate. Solo guardando alle aziende del Ftse Mib di Borsa Italiana, si rilevano 41 legali on board. Il 65% delle quotate a più alta capitalizzazione ha almeno un avvocato nel proprio cda.? ?Ma quali sono i rischi a cui un avvocato va in contro nel momento in cui accetta un incarico, ancorché da indipendente, negli organi sociali di un’azienda?
IL CASO EREDE Le questioni arcinote dei potenziali conflitti d’interesse (che si manifestano quando un avvocato è anche il legale della società) e dei rischi reputazionali (che si corrono quando una società viene coinvolta in scandali giudiziari) non dicono tutto.?Proviamo ad analizzare quanto accaduto di recente al più potente avvocato d’affari italiano: Sergio Erede. Il fondatore dello studio Bonelli Erede Pappalardo (300 avvocati in Italia e 135 milioni di fatturato nel 2013) fino a pochi mesi fa era noto anche per i numerosi incarichi da indipendente nei consigli d’amministrazione di alcune tra le più importanti quotate del Paese. Incarichi a cui, dallo scorso mese di marzo ha dovuto rinunciare più per ragioni di opportunità che di diritto, fanno sapere dal suo entourage.?Le dimissioni dell’avvocato sono partite da Indesit, dov’era approdato a maggio del 2013. Da qui è cominciato il percorso a ritroso che ha visto Erede rinunciare a tutti i sei incarichi ricoperti in quotate, inclusi quelli nelle società di clienti come Leonardo del Vecchio o Carlo De Benedetti a cui è legato da un rapporto di antica stima e grande fiducia personale.
UNA RESPONSABILITÀ PIÙ ELEVATA La rinuncia alle poltrone nelle quotate (mentre gli incarichi nelle 7 società non quotate in cui sedeva, ha deciso di mantenerli) è stata conseguenza della condanna definitiva subita nel terzo grado del processo sul crac Parmalat, il 7 marzo 2014. La Cassazione ha confermato per Erede la pena (sospesa) di un anno arrivata in Appello. Un giudizio che ha amareggiato l’avvocato e contro il quale aveva deciso di ricorrere dinanzi alla suprema corte, rinunciando alla prescrizione, affinché fosse accertata la sua totale estraneità alle vicende che avevano condotto al dissesto il gruppo della famiglia Tanzi. Del resto, l’avvocato, non solo era in consiglio in qualità d’indipendente e non era mai stato il legale di Parmalat, ma aveva addirittura lasciato il board di Collecchio quasi tre anni prima della dichiarazione di fallimento della società. Tuttavia, i giudici di ultima istanza hanno confermato la sentenza d’Appello, così implicitamente sancendo una sorta di principio secondo cui le responsabilità di un avvocato in consiglio sono più elevate di quelle di tutti gli altri.
DILIGENZA SOPRA LA MEDIA Proprio nei confronti di Erede, infatti, era stato inflessibile il procuratore generale della Cassazione, Piero Gaeta, che ha dichiarato all'Ansa che a un avvocato «della (sua) statura professionale» è richiesta «una diligenza diversa e maggiore di quella che ci si aspetta da un uomo medio». Insomma, nonostante nemmeno le società di rating o le autorità di vigilanza avessero mai sollevato sospetti su quanto avveniva in Parmalat, Erede avrebbe dovuto cogliere gli «indici di anomalia» della vicenda anche con tre anni di anticipo, perché è un grande ed esperto business lawyer. ?Una questione non da poco. Un principio che rappresenta un fondamentale caveat per qualunque avvocato decida di accettare un incarico da indipendente in una società, visto che, estremizzando il concetto, per un legale si potrebbe arrivare ad affermare un principio di “presunzione di colpevolezza”, al posto della consueta presunzione d’innocenza in casi come questo. Un punto, quest’ultimo, che porta alcune fonti vicine alla situazione a pensare che la partita, per Erede, non sia ancora da considerare del tutto chiusa.
IL DIBATTITO CHE NON C’È Quanto accaduto a Erede, la cui reputazione e forza di mercato, va detto, non sembrano essere state scalfite da questa vicenda, avrebbe potuto riaccendere il dibattito e la discussione sull’opportunità della presenza degli avvocati nei consigli d’amministrazione o nei collegi sindacali. ?Tuttavia, così non è stato. ?A cominciare dallo stesso studio Bonelli Erede Pappalardo che oggi come in passato lascia liberi i propri soci di accettare o meno incarichi negli organi sociali delle aziende. Il caso più recente è quello di Catia Tomasetti che ha corso per la poltrona di presidente dell’Acea. Inoltre, da inizio anno, come abbiamo detto, si sono avute numerose nomine di avvocati in altrettanti consigli d’amministrazione di quotate.
ANCHE GLI INTERNAZIONLI SI ADEGUANO? Al di là dei possibili conflitti d’interesse, metabolizzata la consapevolezza di eventuali rischi reputazionali e sottovalutato il principio della “presunzione di colpevolezza”, tutto procede come prima. Anzi di più, visto che sempre più spesso si registra l’attribuzione di incarichi sociali anche a professionisti che sono soci di studi internazionali di matrice anglosassone. Il fatto rappresenta una novità non da poco dato che nelle law firm d’oltremanica e d’oltreoceano spesso e volentieri l’assunzione di questa tipologia d’incarichi è semplicemente vietata, ovvero limitata a rare eccezioni che vanno avallate dai vertici di studio volta per volta. L’eccezione da un po’ di tempo, in Italia, sembra diventata la regola. Tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014, solo per citarne alcuni, abbiamo avuto la nomina di Alberta Figari, partner di Clifford Chance, nel consiglio d’amministrazione di Generali, quella di Claudia Parzani, socia di Linklaters, nel board di Allianz, l’ingresso di Cristina Pagni di Simmons & Simmons in De’ Longhi (nonché la sua candidatura al cda di Parmalat, dove però non è stata eletta).
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