Se il socio di capitale può attendere, lo studio impresa… no

di nicola di molfetta  

Un socio di capitale in studio? La questione desta ancora perplessità nella classe forense italiana. Serve? A cosa? Le domande a cui gli avvocati fanno fatica a rispondere sono queste. La sensazione, anche dopo il dibattito che abbiamo organizzato lo scorso 26 maggio a Milano e di cui vi raccontiamo in questo numero di Mag by legalcommunity.it , è che in pochi abbiano davvero affrontato una riflessione approfondita sulla questione. E, a dirla tutta, le ragioni sono più che comprensibili. Il ddl concorrenza (predisposto dal ministero dello sviluppo economico guidato da Federica Guidi in base alle indicazioni dell’Antitrust di Giovanni Pitruzzella, entrambi nella foto @imagoeconomica), che dovrebbe sdoganare questa figura, verrà mai approvato nella sua attuale formulazione? Rispondere a questa domanda non è facile. E soprattutto la strada che porta da qui al varo della legge è lastricata di emendamenti che potrebbero radicalmente modificare l’articolato rendendolo, a seconda dei casi, un innocuo fuoco pirotecnico o un ordigno ad alto potenziale rivoluzionario.  

Quindi, a oggi, preoccuparsi troppo della questione può risultare prematuro. Eppure, considerato che gli avvocati si lamentano sempre che le leggi che li riguardano direttamente gli vengono fatte sopra la testa, senza che sia loro data la possibilità di contribuire alla produzione di normative davvero utili alle reali esigenze della categoria, forse sarebbe il caso di dedicarsi alla questione con attenzione.  

Ma quale tipologia d’investitore potrebbe essere interessata all’operazione? Oltre alle aziende che potrebbero decidere di esternalizzare le proprie funzioni legali conservando una partecipazione di minoranza negli “studi spin off” (tema di cui abbiamo già parlato in passato) ci potrebbero essere operatori intenti ad agire in ottica private equity. Potremmo definirli capitali “di passaggio”, capaci di immettere nel serbatoio delle law firm nostrane la liquidità necessaria a realizzare investimenti strategici.  

Gli studi legali potrebbero usare queste risorse per aumentare la loro presenza in Italia o all’estero attraverso l’apertura di nuove sedi. Potrebbero investire in innovazione tecnologica e nell’automazione di una serie di procedure e pratiche. Ora che la class action all’italiana sta per essere riformata e potenziata, queste risorse potrebbero consentire a chi voglia specializzarsi nella difesa dei diritti dei consumatori e nel vasto universo dei danni, di dotarsi delle strutture e infrastrutture necessarie a operare in quest’area. E l’elenco potrebbe continuare.  

Qualcuno dice che, di fatto, oggi molti studi hanno già dei soci di capitale. È vero. Sono le famiglie di alcuni avvocati, così come alcuni avvocati che da tempo non sono più operativi nel quotidiano oltreché i cosiddetti soci “equity” delle organizzazioni associate. In cosa differirebbe la presenza di un socio di capitale puro ovvero di un socio-investitore, azionista e non professionista, rispetto allo statu quo? Nel fatto che questi, prima di investire un euro nel progetto vorrebbe verificare l’efficienza dell’organizzazione della struttura, l’adeguatezza delle politiche di remunerazione, la presenza di eventuali diseconomie, così come l’esistenza di potenzialità inespresse e, last but not least, vorrebbe conoscere i conti della “filanda”.  

Quindi, oltre a essere un’opportunità, l’apertura a un socio di capitale farebbe aumentare esponenzialmente le responsabilità dello studio e di chi lo gestisce, che dovrebbe cominciare a render conto del proprio operato anche a un soggetto avulso dal “contesto interno” e interessato unicamente a rendere redditizio il proprio investimento, libero da qualsivoglia sudditanza psicologica nei confronti di chi, o perché ne è il fondatore o perché risulta il maggior contributore, ha comandato sotto l’insegna della law firm fino a quel momento.

Tra le responsabilità in questione, ci sarebbe quella di investire e di programmare un percorso di crescita ed evoluzione della struttura che oggi, invece, può essere tranquillamente gestito in maniera estemporanea, seguendo gli umori e le sensazioni degli avvocati che tengono le redini della struttura i quali, pur avendo le risorse necessarie, possono decidere se e cosa fare, come e quando farlo e possono persino decidere non fare nulla e stare fermi (cosa, quest’ultima, che nessun’azienda si potrebbe mai permettere).  

È probabile che la ragione della freddezza o dello scetticismo di tanti avvocati nei confronti di questa evoluzione stia proprio qui: nel rischio di perdere il controllo, ovvero di veder messa in discussione la propria gestione.  

In ogni caso, c’è da chiedersi se questo processo di responsabilizzazione indotta del management di studio non sia utile o addirittura necessario per aumentare la competitività delle insegne nostrane. Il fatto che oggi ci siano grandi realtà con un’alta redditività e poco bisogno di capitali esterni non significa che quegli stessi studi non abbiano bisogno di essere spronati a fare meglio e di più eliminando le diseconomie, migliorando i processi produttivi, innovando l’offerta e valorizzando le proprie risorse.  

Andando oltre il tema del socio di capitale, però, oggi a impedire a molte realtà di agire imprenditorialmente è l’impossibilità di costituirsi come srl o spa. L’obbligo di distribuzione degli utili ai soci, l’impossibilità di fare accantonamenti o di destinare risorse a investimenti o di accedere a incentivi pubblici, per esempio, rappresentano un freno enorme per lo sviluppo degli studi legali associati italiani. Se i tempi per immaginare una partnership aperta a un azionista investitore non sono ancora arrivati, quelli per consentire a chi lo voglia di dare al proprio progetto professionale la forma giuridica che meglio può aiutarlo a crescere e innovarsi, sono più che mai maturi. E forse è arrivato il momento di agire.

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