IN HOUSE: E SE AL BUDGET CI PENSASSE UN FONDO?
di nicola di molfetta
Stare nel budget. Tagliare il budget. Ma quale budget se non c’è budget?! Far quadrare i conti di una direzione affari legali può essere un duro mestiere. Soprattutto se all’orizzonte si profilano cause milionarie. Di quelle che possono cambiare il colore della cifra all’ultima riga di un bilancio, facendola passare da un tranquillizzante nero a un inquietante rosso. Pesare sui conti. Essere percepiti come puro centro di costo per l’azienda e non come funzione capace di creare valore è il grande cruccio (o dovrebbe esserlo) di molti general counsel. Per questo, quando si è saputo che Burford Capital, fondo specializzato nel cosiddetto third party funding, aveva chiuso un accordo per finanziare con quasi 32 milioni di sterline una delle società del Ftse 20 della Borsa di Londra, in tanti hanno fatti un salto sulla sedia. Avvocati e general counsel.
Già, perché cos’è il third party funding? Si tratta, spiegata in soldoni, dell’attività di finanziamento dei contenziosi da parte di alcuni fondi che, in caso di vittoria della parte su cui hanno investito, si assicurano una sostanziosa percentuale di quanto ottenuto in sede di giudizio. Fino a oggi, il third party funding aveva bussato prevalentemente alle porte di studi legali. Era il socio finanziatore di quelle realtà tipicamente impegnate in attività giudiziali ad alto potenziale di ritorno e anche di rischio. Si pensi, ad esempio, alle class actions.
Il fatto che, con l’accordo tra Burford Capital e quello che, secondo quanto rivelato da The Lawyer dovrebbe essere il gigante delle telecomunicazioni BT Group, ora questo business si apra anche alle aziende o meglio alle loro direzioni affari legali, potrebbe svelare scenari inaspettati. A cominciare dalla finanziarizzazione dell’attività contenziosa. Per le aziende potrebbe una rivoluzione. Per le direzioni affari legali una svolta. Soprattutto nella misura in cui potrebbero cominciare a produrre utili (queste realtà possono ambire a un ritorno sui loro investimenti iniziali di tre o quattro volte rispetto all’investito), scaricando una parte del rischio sul fondo e liberando le riserve. Certo, c’è anche il rovescio della medaglia.
Molti si domandano se l’ingresso di capitali da destinare al contenzioso non rischi di far crescere artificialmente il tasso di litigiosità di un’azienda cambiando alla radice le logiche in base alle quali si decide o meno di andare in giudizio. Secondo, poi, c’è il tema del rapporto con gli studi legali. Chi fa il panel di un’azienda quando di mezzo c’è un soggetto terzo che vuole tutelare il proprio investimento e renderlo il più proficuo possibile? Per gli studi legali c’è il rischio di vedere moltiplicati i “livelli” da superare per arrivare ad ottenere un mandato. Non sono questioni banali. E sicuramente non sono nemmeno tutte le questioni che il ricorso a questi nuovi strumenti finanziari farà sorgere e che certamente scopriremo con il passare del tempo.
Si tratta di uno scenario dirompente perché destinato a cambiare radicalmente l’approccio alla litigation da parte delle aziende che potrebbero persino decidere di rafforzare la loro capacità di azione in-house per evitare di disperdere valore continuando a dividere per tre (fondo-azienda-avvocati) quanto ricavato con i contenziosi e gli arbitrati. Non è un caso che questa sperimentazione inglese sia partita con un’azienda come BT che, oltre a essere molto impegnata in contenziosi, è stata tra le prime a creare un proprio studio legale in forma di Abs (si veda il numero 4 di MAG) e vede alla guida dei propri affari legali un manager (Dan Fitz) che fin dal suo arrivo, nel 2010, ha ridotto la spesa legale del gruppo all’osso facendola scendere quasi del 90%.
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