Legance e le regole della competitività
«Il mercato è molto attivo. C’è un sacco di liquidità. Anche se quanto durerà non lo so. Ma c’è, viene investita e essere al fianco di chi ne dispone è fondamentale». Filippo Troisi (nella foto) socio fondatore di Legance, entra nella sala riunioni della sede di via Dante, a Milano, in maniche di camicia. Stile man at work. Di lì a pochi giorni, il presidente della Bce, Mario Draghi, annuncerà un nuovo taglio dei tassi (portando a zero quello di riferimento), il rafforzamento del Quantitative leasing (portando a 80 miliardi gli acquisti mensili di titoli di Stato da parte dell’Eurotower), la concessione di quattro maxiprestiti alle banche e il via all’acquisto di bond aziendali. C’è da credere, quindi, che il buon momento di mercato e la liquidità evocata potranno continuare a produrre i loro effetti ancora per qualche tempo. Intanto, l’avvocato, non nasconde la soddisfazione per l’andamento dello studio che, nel 2015, ha chiuso il quarto esercizio di fila in crescita e in questa intervista esclusiva a MAG svela le strategie di crescita dello studio che, adesso, vuole la vetta del mercato.
Avvocato Troisi, com’è andato il 2015 per Legance?
Molto bene direi. Il nostro incassato è arrivato alla soglia dei 70 milioni di euro (69 per la precisione) mettendo a segno una crescita del 17% a fronte di una struttura che è rimasta molto efficiente. Nel 2014 eravamo 254 unità, oggi siamo 281.
In termini gestionali questo cosa significa?
?Questo vuol dire che la capacità dello studio di generare ricavi e utili è cresciuta in maniera esponenziale. Se si aumentano in maniera sostanziale i ricavi dello e si continua a essere efficienti, il saldo attivo aumenta in maniera significativa.
Il che richiede un particolare spirito di sacrificio?
Richiede tempo e dedizione al management. Talvolta le persone tendono a minimizzare l’importanza della presenza di un buon management in uno studio legale. Ma è fondamentale, come in ogni altra impresa. Come fondamentale è la scelta delle persone giuste.

Ovvero?
Nell’ambito dell’organizzazione, bisogna saper scegliere un management adeguato che gestisca l’azienda nel modo migliore. Anche prendendo figure esterne.
Nel senso di “non avvocati”, immagino. Voi ne avete?
Sì, il cfo dello studio, Emilio Sica, non è un avvocato. Ma è capo di tutta la struttura di staff, segue la contabilità e la reportistica di studio. Si tratta di una funzione di importanza fondamentale.
Perché?
Perché si tratta di dati che, se ben organizzati, segmentati e opportunamente diffusi, forniscono elementi preziosi sul mercato col quale ti confronti e aiutano a capire su quali fonti si sta facendo bene e su quali si può migliorare. In questo modo, si permette a chi fa la strategia dello studio, ovvero gli avvocati, di concentrarsi dove il mercato offre di più, dove i clienti offrono di più e dove c’è più spazio o dove si può fare la differenza rispetto alla concorrenza.
A proposito di spazi, come vede la corsa a prendere “casa” a Londra che molti studi hanno intrapreso di recente??
Noi ci abbiamo messo diversi anni prima di aprire a Londra. Sebbene la volontà di farlo l’avessimo dichiarata appena costituiti. Questo perché abbiamo sempre creduto che aprire una qualsiasi sede solo per il gusto di farlo o di mettere la solita bandierina sulla carta intestata, tanto per dire che hai un ufficio in più, non ha alcun senso.
Avete aspettato che passasse la crisi…
Noi abbiamo aperto Londra con calma, perché inizialmente abbiamo pensato che i tempi non fossero maturi. Quando poi, dopo la grande crisi post Lehman, abbiamo intuito che la ripresa si stava affacciando e quando abbiamo visto che avevamo anche le risorse per sviluppare un progetto di lunga durata, abbiamo fatto un piano di sviluppo dell’ufficio e della practice.

E oggi come siete strutturati nella City?
Abbiamo due soci senior che settimanalmente vanno a Londra a sviluppare rapporti per la nostra attività in ambito m&a e banking & finance. Altri soci, poi, tengono i rapporti con tutto il mercato private equity, a cominciare da quei clienti che seguiamo da molti anni.
La concorrenza vi preoccupa?
In tanti stanno arrivando Londra, adesso. Vero. In alcuni casi si tratta di player di qualità. Ma noi sappiamo che non basta aprire un ufficio per diventare un concorrente reale. E chi arriva ora deve recuperare il tempo perduto rispetto a chi il percorso lo ha cominciato molto prima.
Più in generale, come racconterebbe la vostra attuale strategia?
Rispetto al mercato direi che noi ci muoviamo in una duplice direzione. Da un lato restiamo uno studio indipendente e una full service firm. Al tempo stesso, però, cerchiamo di focalizzare sempre più la nostra attenzione su quei segmenti (industry, clientela, practice) che possono essere più remunerativi. È questa la nostra linea imprenditoriale.
Oggi quali sono le aree più remunerative?
L’m&a resta la principale. Le grandi operazioni, soprattutto di carattere internazionale, hanno un livello di complessità così elevato che richiedono un lavoro di grande qualità. Anche la finanza strutturata porta un livello di complessità simile e in certe situazioni può dare anche analoghe soddisfazioni sul piano economico. Poi c’è il contenzioso, giudiziale e arbitrale. Abbiamo chiuso le controversie sui famosi tango bond con piena soddisfazione per i nostri clienti.
E in prospettiva?
Grande importanza hanno l’attività dei private equity e quella transfrontaliera o cross border. Un’area in cui noi investiamo con il nostro sistema di country partner. Non è un caso se, lo scorso anno, abbiamo fatto Cyberonics-Sorin, o la dismissione di Rihag da parte di Apax, o la quotazione di Ferrari. Questa osmosi continua con l’estero ci rende un player di riferimento per i soggetti che dall’estero arrivano a investire nel nostro Paese.
I clienti italiani perdono appeal?
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