FACEBOOK FA CAUSA A DLA PIPER

La scelta del proprio cliente può essere un'arma a doppio taglio. Lo sa bene ora DLA Piper, che ora si trova a dover affrontare in tribunale il colosso dei social network Facebook e il suo ad Mark Zuckerberg

Secondo quanto riporta la stampa internazionale, la società californiana,  difesa dagli studi Kellogg Huber e Moskowitz & Book, con un team guidato da Mark Hansen, ha citato lo studio legale davanti alla Corte Suprema di New York con le accuse di ingiusta causa e collusione. La sua presunta colpa sarebbe quella di aver difeso nel 2010 tale Paul Ceglia, l'uomo che qualche anno fa aveva intentato una causa contro il social network californiano sostenendo di possedere almeno l'84% della piattaforma. La causa durò a lungo, ma alla fine fu accertato che si trattava di una truffa e Ceglia, che aveva falsificato la corrispondenza utilizzata come prova, fu arrestato nel 2012 per frode postale e frode elettronica. Il processo è ancora in corso e le accuse rischiano di costargli una condanna fino a 40 anni di carcere.

Secondo quanto si legge nella denuncia, Facebook sostiene che «gli avvocati di Ceglia sapevano o avrebbero dovuto sapere che la causa, avviata da un uomo con precedenti per truffa, era una bufala e che tutta la storia era basata su documenti falsi». Durante la causa, continua la nota, «uno degli avvocati di Ceglia scoprì la frode, e si ritirò dopo aver informato gli altri. Nonostante questo, Ceglia proseguì con l'accusa portando il caso in tribunale e davanti ai media di tutto il mondo». 

Lo studio legale che ha scoperto la frode, Kasowitz Benson Torres e Friedman, nella persona del partner Aaron Marks, avrebbe voluto raccontare tutto alla Corte, ma uno degli altri legali del signor Ceglia, sostiene Facebook, lo avrebbe persuaso a tacere per via della alta pubblicità del caso, e per questo motivo Kasowitz si sarebbe ritirato. Durante il processo anche altre law firm si ritirarono, ma senza dare spiegazioni. Facebook, conclude la nota, è stata «costretta a continuare a difendersi contro le pretese di Ceglia per due anni, quando un giudice federale ha respinto l'accusa contro la società e avviato l'azione penale contro di lui». 

Oltre a DLA Piper, con un team al tempo composto da John Allcock, Robert Brownlie il partner Gerard Trippitelli e Christopher Hall, nel mirino di Facebook ci sono lo studio Milberg, Lippes Mathias Wexler Friedman and Paul Argentieri & Associates e l'ex procuratore generale di New York, Dennis Vacco.

In difesa della law firm, Pietro Pantaleo, general counsel di DLA Piper, ha affermato che «questa causa è del tutto priva di fondamento, una tattica per intimidire gli avvocati che vogliono portare avanti cause contro Facebook» aggiungendo che «DLA Piper è stato coinvolto nel caso solo per 78 giorni e ora Mark Zuckerberg ritiene di essere stato danneggiato per quei 78 giorni». Dopo 10 mesi dal ritiro di DLA Piper dal caso, ricorda Pantaleo, «e mentre il contenzioso era ancora in corso, Facebook ha presentato un'Ipo che ha valutato l'azienda a 100 miliardi di dollari. Oggi, Facebook vale 200 miliardi dollari e il signor Zuckerberg è tra le persone più ricche del mondo».

Di fatto, secondo quanto lascia intendere Pantaleo, Facebook non ha subito alcun danno e non ha certo bisogno dei soldi di DLA Piper: ma allora perché, si chiedono le riviste americane, intentare la causa? Come ha spiegato il general counsel di Facebook, Colin Stretch: «Abbiamo detto fin dall'inizio che le affermazioni di Paul Ceglia erano una frode ma DLA Piper e gli altri studi legali, pur sapendo che l'accusa si basava su documenti falsi, l'hanno portata avanti comunque, e ora devono rispondere delle loro azioni».

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