LO “STRANO CASO” DEI SOCI INTROVABILI

di nicola di molfetta

Questa prima metà dell’anno è trascorsa senza grandi colpi di scena sul versante dei lateral hire. I cambi di poltrona degni di nota si contano, contro ogni aspettativa, sulle dita di una mano. Eppure le premesse con cui il 2014 era cominciato lasciavano prevedere un’annata record. Ad alimentare le aspettative su questo fronte erano due fattori: l’ingresso sul mercato di nuove insegne e la necessità di rilancio di alcune strutture già presenti ma investite del compito di crescere in tempi rapidi.

Sondando gli operatori e cercando di capire perché, secondo loro, queste operazioni non sono ancora partite, si ricevono risposte abbastanza curiose che permettono di stilare una piccola classifica delle ragioni che frenano questi cambi di poltrona.

Prima di tutto, se si parla di rainmaker, la ragione principe della mancata chiusura di un accordo di partnership sembra essere rappresentata dal “nome”. A quanto pare, ogni avvocato che abbia un minimo di mercato e che abbia in corso una trattativa per passare dallo studio in cui milita a un’altra struttura, prima ancora di parlare di soldi, chiede che si dia spazio al proprio nome nella ditta dello studio. Lasciare, per esempio, una grande realtà internazionale, per uno studio italiano? Si può fare, ma solo a patto che la “piccola” associazione locale da domani porti il nome dell’uomo della pioggia. E questo vale anche se il cambio di casacca si prospetta tra studi tricolore. «Il nome prima di tutto» gridano i rainmaker di casa nostra che così, molto spesso, finiscono col restare dove si trovano.

A seguire, tra le ragioni dello stallo sul fronte dei “passaggi laterali” c’è la questione dei numeri. Chiunque, usando il buon senso, sarebbe portato a pensare che più un professionista è dotato di fatturato e più le porte degli studi a caccia di soci dovrebbero spalancarsi. In realtà così non è. In molti, infatti, pur essendo alla ricerca di nuovi soci, non sono disposti a prendere in casa partner che possano (anche solo potenzialmente) mettere in “ombra” la leadership attuale dello studio. E’ un po’ la vecchia storia della botte piena e della moglie ubriaca. Si vuole un partner dal business case a sei zeri ma con le aspirazioni di carriera di un monaco zen.

Solo al terzo posto, invece, si piazza la mancanza di visione strategica. Al di la delle considerazioni che si potrebbero fare sul fatto che il motivo apparentemente più serio sia relegato al gradino più basso del podio, c’è una questione che questo dato fa emergere in modo estremamente chiaro. Molti lateral hire non vanno in porto quando l’operazione si rivela una semplice manovra di aggregazione dei fatturati. La somma dei conti non può essere l’obiettivo. Ed è difficile che un professionista con un vero business case personale possa accettare di associarsi a un nuovo gruppo di legali solo per ragioni di mutualità. Sono le sinergie e le prospettive di crescita che possono stimolare una unione professionale. Diversamente si rischia solo l’effetto stampella: o si vanno a sostenere i conti di una struttura in affanno o si prende in carico un bel curriculum che non è neanche in grado di pagarsi l’affitto. In entrambi i casi, il risultato finale sarà un player che invece di correre e ampliare la propria market share, si muoverà al passo dello zoppo.

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