Dl anti-delocalizzazioni. Bonante (GPBL): «Una bozza da rivedere»

Fa discutere la bozza del cosiddetto d.l. anti-delocalizzazioni, il piano con cui il governo vorrebbe vincolare i licenziamenti collettivi da parte delle società con oltre 250 dipendenti all’approvazione del Mise. Sul tema sono intervenuti politici, imprenditori, sindacalisti e, naturalmente, anche gli esperti del settore.

Lo studio Gatti Pavesi Bianchi Lodovici (GPBL) ha diffuso una newsletter in cui si esaminano i punti cruciali della bozza del decreto legge in questione: una comunicazione preventiva; l’obbligo di presentazione di un piano per limitare le ricadute occupazionali ed economiche derivanti dalla chiusura di un sito produttivo; l’apertura di una procedura con più interlocutori (Anpal e sindacati) al ministero dello Sviluppo economico; la necessità che il piano venga approvato da questo tavolo di concertazione; le sanzioni in caso di mancato rispetto di quanto deciso. 

Nella newsletter, a firma degli avvocati Nicola Bonante (in foto) e Paola Tradati, si esprime preoccupazione per una misura che, qualora dovesse andare in porto, “invece di contrastare il fenomeno delle delocalizzazioni, avrà come unico effetto quello di rendere sempre meno appealing il nostro Paese verso investimenti anche – e soprattutto – stranieri”. 

Se l’obiettivo della newsletter era quello di evidenziare delle criticità, così da innescare un dibattito, il bersaglio è stato centrato in pieno. Abbiamo intervistato uno dei due autori, l’avvocato Bonante, equity partner di GPBL e specializzato in tutte le tematiche connesse al diritto del lavoro e delle relazioni industriali. Bonante va subito al sodo: «In una fase in cui sta per ripartire l’attività di riscossione, ipotizzando evidentemente l’inizio della ripresa, non si va di pari passo a questa tendenza, ma si blocca il settore del lavoro e delle relazioni industriali. Un qualsiasi manuale “entry level” ti dice che se hai necessità di ristrutturare, riorganizzare, efficientare, a prescindere dalle ragioni (lecite) che portano a tale scelta, dopo quelli legati alla comunicazione e marketing, tra i primi costi (fissi) oggetto di valutazione ci sono quelli legati al personale dipendente. Ove ci fosse bisogno di questo intervento, non si tratterà di un capriccio, ma di una necessità per recuperare competitività. Quale è la soluzione, rendere tutto più macchinoso, lungo ed incerto nell’esito?».

Quali sono, a vostro avviso, le principali ricadute che potrebbe avere l’approvazione di una procedura di questo genere?
Ci sarà sempre meno capacità attrattiva degli investitori stranieri e non. Chi viene dall’estero si informa per prima cosa sul livello di sindacalizzazione dell’azienda target e, in seconda battuta, chiede conferma di quanto macchinoso sia il sistema-lavoro in Italia. Con una misura come quella abbozzata, penso a quanto ancora meno appealing diventerebbe l’Italia. Una big-size company dovrà avviare una procedura burocratica enorme…che interesse ci sarà ad acquisire un’azienda che ha bisogno di ristrutturazioni se i vincoli sono questi?

In che direzione dovrebbe essere corretta questa misura per renderla digeribile a un big-player?
Eliminando totalmente l’ipotizzata fase preliminare, magari rafforzando i meccanismi alla base della già complessa legge 223/1991, che norma l’obbligatoria procedura di concertazione nei casi di licenziamenti collettivi. Si potrebbe stabilire ad esempio una durata perfino maggiore agli attuali 75 giorni (45+30), prevedendo maggiori obblighi di informazione per permettere – senza che vi sia ovviamente uno scambio di ruoli … – una maggiore e “condivisa” fase di analisi e, in senso lato, di controllo. Non parlo di dilatazione dei poteri del sindacato; parlo di maggiore confronto – stante il particolare momento storico – penso ad una maggiore incentivazione verso il raggiungimento di accordi che rendano molto meno traumatiche le uscite. Di certo chiedere approvazione ministeriale per poter fare impresa non è la soluzione. Senza considerare che un tema di contrasto con l’art. 41 della Costituzione me lo porrei. 

In questa fase, quale possono essere le soluzioni per rilanciare l’impresa e, al tempo stesso, tutelare i lavoratori?
Occorre decidere una volta per tutte quando iniziare a semplificare una materia che di per sé ha già le sue forme di complessità, di tipo sociale e politico. Accanto alle semplificazioni di cui tanto si parla, come fisco e giustizia, perché non si riesce ad arrivare a un testo unico del diritto del lavoro? Una riforma che prenda spunto dal post-pandemia e sia in grado di creare un nuovo modello italiano. Cercando di fare chiarezza e creando un sistema definito, con poco spazio per le libere interpretazioni o l’ampia discrezionalità del giudicante, quanto meno sulle tematiche che, per l’appunto, hanno – e avranno – sempre maggiore impatto socio-politico: dal licenziamento individuale a quello collettivo, passando per ammortizzatori sociali e quant’altro.

Leggendo la vostra newsletter, non sembra questa la direzione presa dal governo…
È possibile che in un Paese che vuole e deve riavviare la propria leadership, proprio nel momento in cui i colleghi-competitor europei iniziano a riconoscerla, anziché fare passi avanti (anche) sul piano del diritto del lavoro, complichiamo sempre di più le norme, rendendole difficilmente comprensibili a chi, da fuori i nostri confini, decide di investire nel nostro Paese? Può essere appassionante per noi tecnici, sotto molteplici profili, alla fine si tratta del nostro lavoro spiegare, commentare, interpretare ed applicare. Ma al mercato del lavoro, a chi ha davvero in mano la tanto agognata ripresa, giova davvero una misura del genere?

frabon

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