1: IL CASO SALLUSTI SECONDO BASILIO DI SIMMONS & SIMMONS

Abbiamo voluto affrontare il caso del direttore de Il Giornale, Alessandro Sallusti sentendo un penalista e un giornalista. Di seguito il pezzo di Luca Basilio, partner, responsabile del dipartimento di penale dello studio Simmons & Simmons a cui segue la pubblicazione/replica di Francesco Specchia di Libero.

Salvate il soldato Sallusti: tra diritto dell’informazione ed informazione sul diritto

Confesso che Alessandro Sallusti mi sta antipatico. Ho opinioni diverse da lui politicamente, culturalmente, professionalmente e tutti gli altri “mente” a cui possiate pensare. Quindi questo mio commento è, per così dire, “al di sotto” di ogni sospetto. Ma la vicenda della sua condanna e di come i media l’hanno riportata mi ha dato profondamente fastidio. Come avvocato, prima ancora che come cittadino.

La storia è ormai nota, ma non fa male ripercorrerla. Nel 2007 una ragazzina di tredici anni che ha avuto un’infanzia difficile, e che continua ad avere un’adolescenza difficile, rimane incinta. Lei vuole abortire e la madre è d’accordo (o la madre la convince ad abortire, ma ai nostri fini non cambia), ma il padre no (o lei e la madre non vogliono coinvolgerlo, che ai nostri fini continua a non cambiare), e quindi si rivolge al giudice tutelare. Una simile richiesta al giudice tutelare è questione assolutamente normale e fisiologica, prevista dalla legge proprio per situazioni come queste. Il giudice autorizza figlia e madre a fare la scelta che ritengono più opportuna, senza il consenso del padre. In seguito, vuoi per motivi pregressi ed indipendenti, vuoi per lo shock dell’aborto, la ragazzina viene ricoverata per esaurimento nervoso.

Non ho un ricordo in proposito, ma sembra che molti giornali abbiano pubblicato la notizia (in modo più o meno accurato, ma ai nostri fini è sempre indifferente). Libero e Sallusti fanno altro. Che sia motivato da volontà di polemica verso la magistratura o da intenti anti-abortisti poco importa: Libero ci fa almeno un’intera pagina, tra cui un “commento” firmato da tal Dreyfus, che si scoprirà poi essere il signor Renato Farina, ora parlamentare PdL e prima giornalista radiato dall’Albo perché spiava per i Servizi Segreti. Quel “commento” contiene una serie di informazioni false, di fatti falsi, che stravolgono completamente una storia già di per sé molto triste e delicata.

Il magistrato che ha concesso l’autorizzazione come giudice tutelare querela e Sallusti viene condannato a quattordici mesi di carcere per diffamazione a mezzo stampa  (artt. 595 c.p. e 13 L. 47/1948 – reato che, come ha precisato l’Ufficio Stampa della Corte di Cassazione, è punito con la reclusione sino a sei anni, oltre alla multa).

Sallusti, ora direttore de Il Giornale, a pochi giorni dalla decisione definitiva lancia il “caso” sulla sua personale vicenda. E si scatena su tutta o quasi la stampa italiana l’operazione “salvate il soldato Sallusti”: non è possibile che si vada in galera per un reato d’opinione, non è possibile che un direttore di giornale vada in galera per un articolo scritto da un altro giornalista, ovvero che sia condannato per responsabilità oggettiva, eccetera eccetera.

Ora, sono molti i motivi del mio fastidio. Primo fra tutti la mia antipatia per Sallusti. Il secondo per un certo non so che di “difesa della casta” che l’intervento di molti giornalisti sembra aver avuto (ma detto da un esponente di un’altra casta, quella degli avvocati, rende onestamente questo fastidio un po’ ridicolo). Quello che più mi ha dato fastidio non è stata nemmeno la scorretta informazione sul tema giuridico. Che è stata grave e quindi merita di essere approfondita.

Innanzitutto, Sallusti non è stato condannato per un “reato d’opinione” che, nel nostro ordinamento, fortunatamente non esiste. A parte il fatto che non è sempre lecito esprimere una qualsiasi opinione – in materia di diffamazione la Cassazione ha posto limiti ben precisi in proposito, stabilendo ad esempio che è comunque reato esprimere un’opinione con l’utilizzo di termini «pretestuosamente denigratori e sovrabbondanti rispetto al fine della cronaca del fatto e della sua critica» (così Cass. 19381/2005 – la cosiddetta “continenza”); e ci mancherebbe altro: in caso contrario verrebbe meno ogni limite di civiltà dei rapporti umani che non può mancare anche nel caso di esercizio del diritto d’opinione o di critica –, nel caso Sallusti/Dreyfus siamo in presenza di un articolo che contiene affermazioni del tutto false sui fatti, come per esempio quella secondo cui il giudice avrebbe ordinato l’aborto a fronte di una ragazzina che non l’avrebbe voluto. Qui, non c’è opinione che tenga: se pubblichi un fatto falso, sei un diffamatore. Come cittadino, prima ancora che come avvocato, chiedo che i media – quali intermediari tra me e le informazioni – identifichino le notizie, le verifichino e me le propongano con sufficiente obiettività da consentirmi di farmi la mia di opinione. Se i giornalisti falsificano le notizie, come cittadino, mi rendono un cattivo servizio; e, come avvocato, commettono un reato.

In secondo luogo, non è vero che Sallusti sia stato condannato per “fatto altrui”. A prescindere dal fatto che si sia consentito di pubblicare ad un tizio che non poteva più fare il giornalista perché radiato dall’Ordine professionale (come se io facessi lavorare un ex collega avvocato, radiato perché spifferava ad una controparte informazioni sui suoi clienti), do per scontato che in una qualsiasi organizzazione il “capo” decida la politica d’impresa: quindi, pur non sapendo come funziona esattamente una redazione di giornale, do per scontato che il direttore di un quotidiano decida la politica editoriale e quindi, nel caso della ragazzina, do per scontato che Sallusti abbia deciso – con i suoi redattori e con Dreyfus – il taglio da dare agli articoli che sarebbero stati pubblicati sul quotidiano di cui lui era direttore responsabile. Se le cose stanno così, in applicazione dei normali principi di diritto penale, non è che Sallusti “non poteva non sapere”, ma doveva sapere ed ha consapevolmente chiuso gli occhi sul contenuto dell’articolo, oppure sapeva ed ha accettato che fosse pubblicato un articolo con notizie false. Questa è una “sua” responsabilità, non quella di un terzo. D’altro canto, ai sensi dell’art. 57 c.p., il direttore responsabile di un quotidiano ha una propria ed autonoma responsabilità per omesso controllo di quanto viene pubblicato: se con la pubblicazione viene commesso un reato, il direttore responsabile è colpevole per fatto proprio, non diversamente da qualsiasi altra “posizione di garanzia” che l’ordinamento riconosce. Ed infine, ricordo che è principio assolutamente costante in giurisprudenza che un articolo pubblicato anonimo o con pseudonimo è riferibile al direttore responsabile, sempre che l’autore dell’articolo non venga identificato. Sappiamo, per le sue stesse dichiarazioni, che Sallusti era perfettamente a conoscenza di chi fosse Dreyfus e che aveva deciso di non rivelarlo. Decisione “altrui” anche questa?

In terzo luogo, indipendentemente dal fatto che a Sallusti non sia stata concessa la sospensione condizionale della pena, non è vero che da una semplice multa si sia arrivati inspiegabilmente alla galera. Da quanto capisco dal comunicato della Corte di Cassazione, il Tribunale aveva condannato alla sola pena pecuniaria per un reato che prevede invece una pena congiunta, reclusione e multa, la Corte d’Appello aveva corretto l’errore ed alla Cassazione non è rimasto che prenderne atto. Stupisce francamente che i giornalisti non conoscano le pene per il rischio penale più tipico della loro professione.

In quarto luogo, quanto alla “pesantezza” della pena inflitta a Sallusti, oppure al fatto che rischi il carcere, si tratta di valutazioni un po’ speciose. Da un lato, infatti, si tratta pur sempre di reato che prevede una pena massima di sei anni e l’essere stato condannato ad un anno e due mesi non mi sembra che implichi un particolare disfavore nei suoi confronti. Da un altro lato, il fatto che un giornalista rischi davvero di andare in carcere in uno stato in cui in galera non ci va nessuno, mi sembra che “provi troppo”: il problema dell’effettività della pena nel nostro paese è troppo noto da essere discusso qui, ma non capisco perché, se è prevista dalla legge una pena detentiva per un reato “professionale” del giornalista, questi non debba scontarla. Altro discorso se una simile pena sia “giusta” o no: ma questo è un problema politico, che deve essere affrontato in Parlamento (magari non sull’onda emozionale del caso singolo: la legislazione “emergenziale” nel settore penale, sia essa in positivo o in negativo, ha già fatto troppi danni per ripetere l’esperienza).

Insomma, da avvocato mi ha dato estremo fastidio il fatto che l’intera vicenda sia stata riportata sui media in modo tecnicamente impreciso, se non proprio scorretto: è troppo chiedere ai giornalisti di fare una corretta informazione (anche) quando si parla di giustizia penale? So bene che il lavoro del giornalista è difficile, ma è cruciale nell’orientare l’opinione pubblica e quindi non può prescindere dall’accuratezza dell’informazione. Siccome un’informazione non accurata nelle vicende penali mi colpisce come piccolo “operatore del diritto” e la pago in termini di credibilità nei confronti della clientela (anche professionale: credete davvero che un qualsiasi CEO sappia e capisca davvero di diritto penale?), vorrei che la stampa mi aiutasse fornendo notizie che poi io non sia costretto a spiegare o addirittura a smentire.

Ma no, non è nemmeno questo che mi ha dato veramente fastidio.

Quello che più mi ha dato fastidio è che il capitano Miller dovrà pur dire al soldato Sallusti «mèritatelo»; e che io non ci vedo Sallusti, sulla tomba di Miller ed alla fine della sua carriera, dire alla Daniela Santanché: «dimmi che me lo sono meritato, dimmi che sono un uomo buono». 

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